Il Foglio sportivo
Aldo Agroppi non ha perso il vizio. Intervista all'ex giocatore e allenatore
“Il calcio di oggi mi fa proprio schifo. Salvo solo gli arbitri”, dice l'ex allenatore e centrocampista
Ho girato il mondo, ma di città belle come Piombino non ce n’è nessuna. Siamo appoggiati a una collina e da quassù guardiamo il mondo. Qui sono nato e qui morirò”. Giunto a lambire la fatidica soglia degli ottant’anni, Aldo Agroppi racconta la sua vita e il mondo, che è stato il suo, con l’ironia e il disincanto di un ragazzo che ancora si diverte a mandarle a dire. La polemica gli scorre nelle vene, come il gusto della battuta e della vita. “Quando ero ancora bambino, ogni spazio aperto era come una manna dal cielo. I campi erano rigorosamente sterrati e le porte inventate con i sassi o i vestiti, che, quando non servivano a questo specifico scopo, venivano stesi sui rami degli alberi. Le docce non c’erano neppure a casa e, sporchi e sudati com’eravamo, ci si lavava alla meno peggio con l’acqua che scorreva dal rubinetto. Era solo divertimento allo stato puro. Nessuno di noi pensava di poter arrivare in alto e forse neppure a delle docce vere”.
La sua vita e la sua carriera sono intrise di un’incredibile fatalità. Lei esordisce in serie A il 15 ottobre del 1967, poche ore prima della tragica morte di Gigi Meroni, un autentico mito per quelli della mia generazione…
“A me poco importava che Meroni fosse un grande calciatore. Per me contava che fosse un mio amico e che mi volesse bene. Il giorno del mio esordio contro la Sampdoria mi ha dato dei consigli, mi ha tranquillizzato, mi ha abbracciato. Tutti gli volevano bene, anche se, o forse perché, era diverso da tutti gli altri. Era umile e generoso. Divideva, come si sa, la sua esistenza fra il campo e la soffitta di Piazza Re Umberto, dove viveva con Cristiana, il suo grande amore, dipingendo quadri meravigliosi. Disegnava anche i suoi vestiti estrosi. Sembrava fuori dal tempo in cui viveva e un po’ lo era, ma era nato per non camminare allo stesso passo degli altri. Aveva l’anticonformismo nel dna. Era il suo karma e il suo destino. Vestito come lui avrei fatto ridere il mondo intero. Lui, vestito come me, sarebbe stato inverosimile, come un pesce fuor d’acqua. Quel benedetto e maledetto giorno sono passato, nel giro di poche ore, dall’estasi dell’esordio in Serie A al dolore irrisarcibile della prematura scomparsa di un grande amico. È stata una grande perdita anche da un punto di vista prosaicamente sportivo. Con lui a correre, in campo con noi e non con gli angeli in cielo, avremmo potuto vincere il campionato”. Della sua carriera di calciatore, che cosa gli è rimasta, più di ogni altra, dentro? “Quell’esordio, che andava oltre i miei sogni di ragazzo, funestato da un lutto troppo grande per tutti. Prima di essere raggiunto da quella terribile notizia, avevo vissuto l’attimo fuggente della prima volta, i sacrifici ripagati, la gioia dei miei genitori quando erano venuti a sapere che avrei giocato, la partenza di una storia importante, come non avevo mai immaginato di poter vivere da protagonista. Non ero un predestinato. Non avevo avuto in dote un corredo genetico di qualità superiore. Ho avuto la fortuna di avere una moglie e un babbo giusti, che mi hanno guidato e accompagnato, passo dopo passo, per tutto il percorso. Mio padre Ferdinando faceva l’operaio all’Ilva. Poi, quando sono stati tutti licenziati, si è riconvertito in rappresentante di medicinali per la Toscana. Avevo un fratello, Livio, morto a vent’anni di leucemia. Un ragazzo d’oro, bello anche più di me. Nadia ed io condividiamo da sessant’anni vittorie e sconfitte, gioie e dolori. Ha capito da subito che cosa voleva dire essere la moglie di un calciatore”.
A quei tempi, gli operai erano ancora di sinistra. Eravate una famiglia etichettabile come tale? “Della politica in generale ho una pessima opinione. Diventerò di destra, di centro o di sinistra, quando vedrò i politici di un qualunque schieramento fare qualcosa di utile per il nostro paese. A ottant’anni quasi suonati, ancora attendo il miracolo. Tutti promettono e nessuno mantiene. È una baraonda senza senso”. Tornando al mondo dello sport, in cui ha trascorso la gran parte della sua vita, chi sono gli uomini che hanno lasciato un segno indelebile su di lei? “L’amico del cuore è stato, e rimane, Lido Vieri, che è di Piombino come me e mi ha aiutato, più di qualsiasi altro, quando sono arrivato in una grande città sconosciuta, come era per me Torino. Lo considero il mio terzo fratello. E, poi, resta indelebile l’affetto per il mio primo allenatore, Edmondo Fabbri, che sin dal primo momento ha creduto in me. È stato un grande mister, che purtroppo ha dovuto portare sulle spalle il peso e sulla pelle la macchia della disfatta contro la Corea”. Ha allenato tante squadre, dalla Fiorentina al Perugia, dal Pisa al Pescara, dal Padova all’Ascoli. Ma mai la squadra per cui batteva, e seguita a battere, il suo cuore… “Dio solo sa quanto avrei voluto allenare il Torino, ma è stato un sogno che non si è mai avverato. Come allenatore, sono rimasto affezionato soprattutto alla Fiorentina, la squadra più blasonata della mia regione, con cui sono arrivato al quarto posto dopo un campionato strepitoso. Fosse accaduto oggi, ci saremmo ritrovati in Coppa dei Campioni, ma erano altri tempi. Con la Viola ho conosciuto da allenatore il calcio vero. In quella Fiorentina giocavano autentici fuoriclasse del pallone, come Gabriel Batistuta e Daniel Passarella”.
Lei è diventato quasi più famoso, dopo l’uscita di scena dal calcio agonistico. È stato un opinionista sui generis, che diceva sempre pane al pane e vino al vino. Il padre putativo dei contestatori del calcio, tanti dei quali ne hanno fatto al tempo d’oggi un mestiere… “Ne vedo tanti tuonare dai più svariati pulpiti televisivi ma, quanto a bravura, sono di due taglie inferiori alla mia. Io dicevo tutto quello che pensavo, senza trascurare nulla, ma con grande serenità. Ho sempre pensato che il male del calcio non vada né rimosso né sottaciuto. Non rinnego nessuna polemica. Ho sempre pensato che la ragione fosse dalla mia parte, anche se me l’hanno fatta pagare. Le mie battaglie erano tutte vinte in partenza, ma era un successo effimero e fine a sé stesso, che esulava dal contesto. Vittorie disegnate su un quaderno tutto mio. Attaccare personaggi importanti, come ho fatto io, significa stare in pace con la propria coscienza, ma accumulare sconfitte nell’unico mondo che purtroppo conta: quello dei potenti. Lo sapevo fin dall’inizio che avrei perso, pur sentendomi dentro di me un vincitore. Non ho mai attaccato nessuno senza un motivo. Me la sono sempre presa solo con chi non ritenevo all’altezza di ricoprire certi ruoli e pensavo non facesse niente di utile per il campionato e per il nostro mondo”. Non rimanga sul generico, mi faccia qualche esempio… “I nomi li conoscono tutti. Ho attaccato la Federazione, i calciatori e gli allenatori. Ho attaccato chiunque non rispettasse la regola principe della lealtà. Ora ho praticamente ottant’anni e sarebbe giunto il momento di godermi in santa pace la mia famiglia”.
Se tanto mi dà tanto, il calcio italiano di adesso non deve piacerle molto... “Non lo guardo. Mi fa schifo. Secondo lei quelle che trasmettono sono partite di calcio? È pieno zeppo di stranieri. Leggi le formazioni e scopri che gli italiani sono al massimo due e non sono certo campioni. Si gioca male. Non ci sono grandi squadre. La Nazionale è in perenne sofferenza. Encefalogramma piatto, senza speranza. Guardo solo il Torino, perché ho giocato al Filadelfia e ogni volta sentivi di entrare in un tempio di dolore, di orgoglio e di speranza. Undici anni trascorsi con addosso la maglia granata non si dimenticano dall’oggi al domani”. Non si ritrova in nessuno degli allenatori attuali? “Spero che non creda anche lei alla favola dei grandi inventori. Gli allenatori non inventano un bel niente! Sono solo leggende metropolitane. Quelli che inventano sono semmai i calciatori. I gol li fanno loro, non gli allenatori. È facile parlare, tanto poi in campo ci vanno i giocatori. Mi ricordo le parole di Giovanni Trapattoni: ‘Aldo questi allenatori che pretendono di inventare non starli a sentire. Sono tutte balle. Io con la Juventus vincevo, con il Cagliari perdevo. Quando il pallone era tra i piedi di Michel Platini, gli schemi li dettava lui. Quando scorreva fra quelli di Massimo Bonini era tutta un’altra storia’. I guru del pallone esistono solo per i tifosi che hanno bisogno di affidarsi a loro, come alla divina provvidenza”.
Anche il sarrismo è un’invenzione a uso e consumo dei tifosi? “Maurizio Sarri vince e perde, esattamente come tutti gli altri. Anche lui ha bisogno di una squadra forte per ottenere i risultati. C’è ben poco da inventare. Che senso ha vincere alla lavagna, o riempire foglietti, se poi perdi sul campo?”. Le piace questa Figc e questa Lega Calcio? “Cambiamo discorso che è meglio”. Che fa? Si sottrae? “Del calcio di oggi non mi piace assolutamente niente. Salvo solo gli arbitri”. Questa proprio non l’aspettavo… “Gli arbitri li ho contestati tante volte, quando giocavo, ma oggi mi pento di averlo fatto. A posteriori, chiedo loro umilmente scusa e li ringrazio per esserci stati, nonostante tutto. La verità è che, se non ci fossero stati gli arbitri, non sarebbe esistito neppure il calcio. I calciatori lo capiscono? Sono miliardari ma, se non ci fossero gli arbitri, avrebbero dovuto fare un altro mestiere. Io, senza gli arbitri, sarei andato a lavorare in fabbrica, come mio padre. Oggi arbitrare è diventato, ancor più di prima, un compito ingrato e pericoloso. Non hanno tregua. Non hanno pace. Tutti li attaccano, aggrappati come funghi allo specchio delle mie brame, che chiamano moviola. Difendo gli arbitri, perché sono costretti ad avere a che fare con calciatori ignoranti e viziati, che li spingono, li accerchiano e li offendono a ogni piè sospinto. Ma che roba è? Se fosse tuo padre, gli armeresti tutto quel vespaio contro. Cerca di capire quanto è difficile per lui e rispetta il suo ruolo”.
Il calcio di oggi le fa letteralmente schifo. In che cosa è peggiorato rispetto a quando giocava e allenava lei? “Il mio calcio era infinitamente più romantico. C’era un attaccamento alla maglia, che oggi è un genere sparito. Quando il Torino mi ha ceduto al Perugia, ho pianto ed erano lacrime vere, anche se andavo a guadagnare di più. Quella maglia non me la sarei mai voluta togliere di dosso. Una maglia che ha scritto una storia vera, che nei secoli nessuno cancellerà”.
Il razzismo nel calcio è una piaga che non si riesce a estirpare…
“È troppo facile incolpare le curve. Io dico che la responsabilità maggiore ce l’hanno le forze di polizia e la magistratura. Quando individui i responsabili degli atti di razzismo devi metterli nelle patrie galere. Altro che Daspo, che non è una punizione, ma la libertà assoluta dei presunti colpevoli fuori dagli stadi e molto spesso non serve neppure a impedire che continuino a frequentarli”. C’è una polemica che non rifarebbe? “Le rifarei tutte. Altrimenti, non sarei stato me stesso”. Perché ce l’aveva tanto con Marcello Lippi? “Acqua passata, anche se le nostre polemiche hanno dilatato l’ascolto di tanti programmi televisivi. Oggi come oggi, vorrei solo che Lippi dicesse che quel mio colpo di testa, con cui avremmo pareggiato contro la Sampdoria e, di conseguenza vinto lo scudetto del 1971/72, lo ha respinto, solo dopo che aver varcato la linea bianca. Sono passati più di cinquant’anni e sarebbe il caso che raccontasse finalmente la verità. Lo ha ammesso anche l’arbitro Barbaresco, anche se continuo a pensare che con quel nome sia meglio il vino”. Come vive i suoi ottant’anni Aldo Agroppi? “Sono in attesa. Al punto in cui sono, non ci sono né raccomandazioni, né raccomandati. I ruffiani non hanno alcuno spazio privilegiato al cospetto della morte”.
Non credo che la sua vita sia ridotta alla mera attesa dell’ineluttabile. Ci sarà ancora qualcosa che alla sera, dopo aver chiuso gli occhi per dormire, sogna di fare o, almeno di rivivere? “Vorrei rivedere i miei genitori e mio fratello. Anche solo per un attimo. Mi sono mancati troppo presto. Sogno un calcio dove tutti vadano allo stadio, come a una festa. Tenendo i bambini per mano, sia che si vinca, sia che si perda. Non come ora, che si sa quando si entra, ma non come si esce. Allo stadio si rifugia e spopola il peggio del peggio. Per il resto, mi godo mia moglie, i figli e i nipotini. Siamo una famiglia per bene, cresciuta con i valori giusti, come oggi ce ne sono poche. Il mondo sta andando a rotoli. Ci si uccide in guerra, per strada e fra le mura di una casa. Che mondo è? Quando verrà il mio momento, me ne andrò senza rimpianti. Mi dispiace solo, e tanto, per i miei due nipotini. A loro scrivo tante lettere perché tutto il bene che penso di loro sopravviva per sempre nelle loro teste. Vorrei che rimanessero per tutto il resto della loro vita i meravigliosi ragazzi puliti che sono ora. Metto i miei pensieri nero su bianco, perché le mie parole non siano cancellate dal vento dell’oblio, ma rimangano indelebili, come un grande atto d’amore”.