Il foglio sportivo
La prima volta di Andrea Piardi, l'italiano che fischia nel Sei Nazioni
All'Aviva Stadium di Dublino in Irlanda-Galles, l'arbitro italiano dirigerà la sua prima partita di rugby nella competizione europea
Oggi Andrea Piardi entrerà in campo e nella storia. Il campo, quello dell’Aviva Stadium di Dublino per Irlanda-Galles di rugby. La storia, quella del primo arbitro italiano nel Sei Nazioni.
Il riassunto delle puntate precedenti?
“Trentun anni, bresciano, laureato in Ingegneria meccanica, otto anni in un’azienda di materie plastiche a Travagliato, il paese dei fratelli Baresi, prima giocatore, poi arbitro, oggi arbitro professionista”.
La prima partita da giocatore?
“Con il Fiumicello, a sette anni, era un concentramento, tante partite in un giorno. Dal Fiumicello al Brescia, terza ala, numero 7, poi un infortunio”.
La prima partita da arbitro?
“A 21-22 anni, a Rovato, per un match Under 14. Un po’ per curiosità, un po’ per soldi, anche se pochi. Si rivelò divertente, ma se ben ricordo, non ho fischiato niente. A ripensarci, qualcosa da rivedere. Anzi, molto”.
Poi?
“Partita dopo partita, sempre più responsabilità. La Coppa del mondo 2023 come assistente. Adesso l’esordio”.
A Dublino?
“Arrivo il venerdì, partenza la domenica. Albergo vicino al campo del Leinster. Cinque dei sette fra arbitri, assistenti e addetti al Tmo, la moviola. Gli altri due sono irlandesi”.
Allo stadio?
“Alle 13.30, un’ora e trequarti prima dell’inizio della partita. Due parole, poi si mangia qualcosa, quindi la riunione con le squadre e in particolare con i piloni, infine il riscaldamento, fisico e mentale”.
Durante la partita?
“Si parla in inglese. Sono fortunato: mia madre è un’insegnante di inglese. Il resto l’ho imparato sul campo. Molto linguaggio tecnico”.
Si capisce l’inglese dei giocatori?
“Poco o niente. Niente quando si esprimono con un accento forte. Ma la regola è che a parlare sono soltanto io”.
Non è che si parla tanto o troppo?
“C’è questa tendenza”.
Una volta l’unico autorizzato era il capitano, agli altri si applicava la regola dell’arretramento di 10 metri.
“La regola dei 10 metri esiste ancora, e forse sbagliamo a non applicarla, ma cerchiamo di non arrivare mai allo scontro”.
Non è che si parla tanto o troppo dopo la partita?
“Saluto i giocatori, rientro nello spogliatoio prima di loro, il terzo tempo è previsto con una cena formale tutti insieme dentro lo stadio. Dopo il Covid spesso si fa così”.
Il rugby, all’inizio, non prevedeva l’arbitro.
“Erano i giocatori a gestire la partita”.
Perché c’era più rispetto o meno regole?
“Tutt’e due. Poi le cose si sono moltiplicate e complicate”.
Arbitrare, oggi, sembra molto più difficile. Vero?
“Sì, ma in tutti gli sport. Non si può più sbagliare. La prova televisiva aiuta, ma esaspera. La verità è che non esiste più la cultura dell’errore, che si può commettere e che si deve accettare”.
In alcune azioni, vista da fuori, si potrebbe fischiare sia contro una squadra sia contro l’altra.
“La mischia chiusa, per esempio. Una questione di tempo: frazioni di secondo. E una questione di interpretazione: soggettiva. Durante la settimana noi arbitri studiamo squadre e giocatori guardando e riguardando, osservando e studiando al video, fino a conoscerne abitudini e comportamenti, vizi e virtù. Poi c’è la partita: quei movimenti, quei gesti, quegli istanti e la decisione, immediata. Finché possibile, noi dobbiamo seguire le linee-guida che ci sono state dettate. Oltre può nascere un errore”.
È religioso?
“Sì”.
Scaramantico?
“Prima della partita eseguo sempre due rituali, che non confesserò mai”.
Che cosa dice ai due capitani prima di cominciare?
“In bocca al lupo”.
Il più bel complimento ricevuto?
“Che sono stato empatico con la partita”.
Quanti giorni trascorre fuori casa?
“Più facile in mesi: cinque”.
Il rugby è sempre uno sport che si fonda sui valori, sui principi, sulle tradizioni?
“Sì. A qualsiasi livello”.
Quale valore predicava da bambino giocatore nel Fiumicello?
“Il sostegno”.
E adesso da arbitro professionista nel Sei Nazioni?
“Non ho cambiato idea: il sostegno”.
Piardi, il rugby è strano.
“No, è bellissimo”.
Le dicevo strano perché è nato e si è costruito intorno a un’infrazione, a una trasgressione.
“Quella di William Webb Ellis, che prese il pallone con le mani. A quel tempo, ma era football, lo si prendeva solo a calci”.
Il bellissimo del rugby?
“Non permette la finzione. È sport vero”.
L’arbitro è un missionario?
“Non dobbiamo convertire nessuno”.
È un sacerdote?
“Non esageriamo”.
E allora chi è?
“Il trentunesimo uomo, o donna, in campo”.