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Il Foglio sportivo

La solitudine di essere Ferrari: Renata Nosetto racconta il lato nascosto dell'ingegnere tra tartufi e caviale

Rita Paparella

Attraverso le parole della moglie dell'Ing. Nosetto emerge quanto la genialità e la determinazione del Drake fossero ingombranti e soffocassero ogni distrazione da quello che era l’obiettivo unico: la Ferrari 

"Date a un bambino un foglio di carta, dei colori e chiedetegli di disegnare un’automobile, sicuramente la farà rossa”. Ed è proprio in questo modo, così come disse il Commendatore, che cominciò a concretizzarsi il sogno di Roberto Nosetto quando, a dieci anni, dopo aver visto Ascari correre al Gran premio del Valentino del 1952, nella sua Torino, prese carta e penna e scrisse: “Quando sarò grande, vorrei lavorare per lei…”. Quel sogno lo nutrì, lo curò, lo fece crescere, attraverso studi classici al liceo D’Azeglio e poi il Politecnico, istituto che lo portò a posare il primo tassello, quel titolo con i quale si presentò senza appuntamento, per la prima volta come Ing. Nosetto, al Ristorante Cavallino di Maranello, dopo tre giorni dalla laurea, chiedendo di poter parlare con Enzo Ferrari.

Era il 1968 e Nosetto aveva già incrociato il Drake a Maranello, quando lavorava alla sua tesi di laurea sul motore Testa Rossa. Dovette fare una lunga gavetta prima di diventare Direttore di pista di Fiorano nel 1978 e poi dell’Autodromo Enzo e Dino Ferrari dal 1980 al 1989. Erano due persone dal carattere completamente diverso e, forse proprio per questo, non ebbero mai contrasti. “Se hai una buona idea e riesci a realizzarla, e un altro si prende il merito, non ha importanza, l’importante è che l’idea sia realizzata”, era la filosofia di vita di Roberto, soprannominato l’ingegnere dalla cravatta verde. “Quando divenne il direttore della pista di Fiorano fu un periodo bellissimo perché tutti i pomeriggi arrivava l’Ing. Ferrari, al tempo lo chiamavamo così. Aveva instaurato un rapporto umano con Roberto che, quando erano da soli, poteva anche permettersi di dargli del tu.” Dal racconto che ne fa Renata Nosetto, si comprende quanto la genialità e la determinazione del Drake fossero ingombranti e soffocassero ogni distrazione da quello che era l’obiettivo unico, LA FERRARI. Per questo si circondava di persone che fossero pronte a seguirlo e assecondarlo in tutto e per tutto, che non si mettessero in competizione con lui e non lo distogliessero dal suo scopo. 


La sfida, per il Drake, era a ogni curva, era con se stesso prima che con le altre scuderie: “Ogni singolo pezzo della pista, deve poter mettere a dura prova il comportamento dinamico dell’auto in modo tale da rendere facile l’individuazione dei problemi di ogni macchina.” Era ciò che chiedeva a Nosetto, quando era Direttore di pista a Fiorano. E aggiunge Renata: “Ferrari non accettava la sfortuna, l’imponderabile. C’era sempre un motivo tecnico nelle sconfitte, e doveva scoprirlo. Spesso non era soddisfatto di ciò che i suoi ingegneri gli proponevano, pur non essendo un ingegnere e non avendo competenze tecniche se non quelle acquisite col tempo. Qualche volta aveva messo anche in castigo Forghieri perché la macchina non vinceva. Le riunioni si tenevano il lunedì, ed era una giornata durissima, dopo le corse, perché, quando la macchina non si piazzava bene, Ferrari continuava con le domande e non mollava finché non aveva risposta. Lui chiedeva “perché?” fino allo sfinimento. Prima di essere in competizione con un’altra squadra lo era con se stesso, per alzare sempre più il livello a cui tendere.” Che la sua vita fosse costruita esclusivamente intorno alla Ferrari era evidente e un esempio fu il celebre “tradimento di Imola”, quando nell’aprile del 1982 vinse Pironi davanti a Villeneuve, che, per quanto amato, non fu tutelato dal Drake. “Il Commendatore amò veramente Villeneuve, che gli sfasciò tutte le macchine vincendo poco, ma gli perdonò tutto, per quanto Gilles non avesse capito chi fosse Ferrari. Entrava nel suo ufficio e nessuno sapeva cosa si dicessero, parlando tra loro anche in lingue diverse. Quando successe il fattaccio con Pironi, Gilles fece l’errore di credere che Ferrari avrebbe preso le sue difese. E invece ciò non avvenne. Ferrari chiese: “Chi è arrivata prima?”, Gilles rispose: “La Ferrari di Pironi”, allora Ferrari chiese “E seconda?”, Gilles: “Una Ferrari.”, e la chiusa fu: “Allora va bene così”. 


Quello che contava era solo LA FERRARI e per questo, ai più, appariva come una persona molto dura, in cui la determinazione sfociava nell’egoismo, uno Scrooge nostrano, in cui il vile denaro era sostituito dalla Rossa fiammante e dalle sue vittorie. Nella realtà, a detta di chi lo ha vissuto personalmente nel quotidiano, quella corazza proteggeva un nocciolo morbido di gentilezza, altruismo, ironia e curiosità.
“Eravamo spesso a pranzo con lui, aveva accolto entrambi come figli. Invitava sempre qualche nuovo ospite, perché si divertiva a studiarlo e prenderlo un po’ in giro. Ricordo, una volta, di una signora che seguiva un regime alimentare rigido. Quel giorno Ferrari fece appositamente cucinare dalla cuoca un risotto coi tartufi. La signora provò a rifiutarlo e fu una lotta tra le risate di lui e le reazioni di questa donna, che alla fine dovette mangiarlo. La prendeva in giro, controbatteva, si alzava dalla sedia con la forchetta in mano e la trattava come una bimba da imboccare e rideva. Più lui rideva, più lei si arrabbiava. Ma per Ferrari era solo un modo per uscire dagli schemi, per non presentarsi con quei suoi modi burberi. In realtà si prodigava per tutti, anche chi, tra i meccanici, aveva bisogno di aiuti economici.” Guardava sempre al livello successivo, pretendendo il massimo, in primis da se stesso, e di conseguenza dal suo team che considerava il prolungamento di sé. Celebre ed emblematica è la sua frase: “La miglior Ferrari che sia mai stata costruita è la prossima”. Sentiva l’esigenza di dimostrare sempre di più, di superare costantemente un limite, dell’auto ma anche proprio, come accade alla maggior parte delle persone che hanno passione per quel che fanno. Umano, forte fuori e fragile dentro, forse per i frantumi che aveva dovuto raccogliere dopo la morte di Dino.
“Ricordo un anno in cui Gozzi, che aveva accumulato 80 giorni di ferie, gli disse: “Vado via”. Aveva problemi alle ginocchia, era agosto, voleva approfittarne per delle cure termali. L’ingegnere gli disse: “Vai pure in ferie” –  con il tono del classico “nulla” femminile – e Gozzi partì per una settimana. Il lunedì successivo Ferrari chiamò Roberto e gli disse: “Sei il capo ufficio stampa, perché Gozzi mi ha abbandonato”. Per punire Gozzi gli tolse il titolo per un paio di mesi, benché ufficiosamente continuasse a lavorare come capo ufficio stampa, poiché ufficialmente lo era Roberto, che non ne era veramente in grado.”
Ferrari era molto solo, per questo non aveva accettato che Gozzi avesse voluto partire.


“Sono stata anche a casa del Commendatore parecchie volte, a Capodanno. C’erano l’autista, la moglie dell’autista, il loro figlio, io, Roberto, e a volte Gozzi. Tutti avevamo amici e altro da fare e lui lo sapeva. La cena era sempre magnifica, con caviale, salmone, champagne di marche eccezionali, noi, però, non vedevamo l’ora di andare via. Dopo il brindisi diceva: “Beh non vorrei faceste troppo tardi, perché domani è festa ma poi si lavora”, e ci congedava, così che potessimo andare dai nostri amici. Se non avesse chiamato noi, non avrebbe avuto altra compagnia la sera dell’ultimo dell’anno, come nelle ferie estive. Roberto lo considerava quasi un padre e lo amava perché lo vedeva fragile. In quei momenti con noi, Ferrari riusciva a essere se stesso e parlare apertamente. Era un onore anche annoiarsi con lui, perché era sereno e senza maschera. Io credo che quello fosse il vero Ferrari.” Renata Nosetto ha pubblicato un primo libro nel 2020, “Giù la visiera e piede a tavoletta”, in cui rivive la vita e le esperienze nel campo della Formula 1 e dei Gran premi di motociclismo del marito. È da poche settimane in vendita anche la seconda opera, “Giù la visiera… a rincorrer l’estate”, che contiene gli aneddoti degli ultimi anni di vita con Roberto, come pendolari, sei mesi a Gallipoli e sei mesi in Thailandia, alla continua rincorsa dell’estate, perché il marito amava il caldo e fuggiva costantemente dall’inverno.

 

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