Il Foglio sportivo
Strade bianche e nuovi mondi ciclistici
Con la classica nelle Crete senesi il ciclismo si è riappropriato della sua fluida rivoluzione
C’era una volta, nemmeno tanto tempo fa, un piccolo mondo che sapeva d’antico composto di genti che pur parlando la stessa lingua, quella dei pedali che girano, non riuscivano, anzi non avevano alcun interesse, a comunicare tra loro. I compartimenti stagni servono solo alle navi per assicurare loro galleggiabilità, sulla terra ferma tutto è contaminazione, mescolio. E la bicicletta è il mezzo che permette meglio di tutti gli altri questo mescolio. Non ci sono filtri, non ci sono distanze tra chi pedala e gli altri e la velocità è abbastanza contenuta da permettere di osservare ciò che ci si muove attorno. Soprattutto va al passo che le diamo, affaticando solo se vogliamo affaticarci. E non si muove senza che noi la vogliamo muovere. E va così con ogni modello di bicicletta e su ogni superficie. Eppure per decenni chi era in sella a una bicicletta con le ruote sottili e si muoveva su strade asfaltate, ignorava quelli che su ruote meno sottili vagavano per boschi e per campi. E viceversa.
Nella testa di chi pedalava sulle strade asfaltate c’era una sola eccezione possibile a questa regola autoimposta: le pietre del Nord. Perché il pavé, nonostante la scomodità, le vibrazioni e ai vari stati della terra, l’aerosa polvere o il viscoso fango, era un richiamo difficilmente resistibile.
C’era una volta, nemmeno tanto tempo fa, tutto questo. E ora c’è ancora, ma molto, molto, meno, perché tutto è più fluido e le distinzioni sono cadute, tutto s’è iniziato a fondere, a confondere, al di là della novità, nemmeno più tanto nuova delle biciclette gravel. Un’etichetta, solo una declinazione commerciale di qualcosa che era cambiato, e fortunatamente. Un ritorno forse al passato nel quale si pedalava e basta per il piacere – o la necessità – di farlo, che è un superamento di tutto questo: un concedersi completo al piacere, alla voluttà del non privarsi di nulla, di prendere tutto il bello del pedalare fregandosene alla grande delle etichette.
Una corsa come la Strade Bianche fino a qualche decennio fa sarebbe stata un’eresia. Forse più di un’eresia, una “porcheria, una maledetta lotteria per nostalgici”, parafrasando il Bernard Hinault furioso dopo aver fatto la conoscenza del pavé della Roubaix.
E non sarebbe esistita perché l’altrove esisteva, per chi pedalava, soltanto nelle forme e nelle convenzioni definite da assurde convinzioni che dimenticavano la rivoluzione che proprio la bicicletta aveva introdotto nella società, ossia “la materializzazione della possibilità di rendere indipendente l’uomo da qualsiasi altra costrizione al movimento: perché l’unico confine della bicicletta è il mare e l’unico impedimento è l’assenza d’acqua”, scrisse lo scrittore inglese H.G. Wells.
La riunione delle biciclette nell’unità del pedalare si è materializzata tra la polvere degli sterri toscani. Lì dove l’ostinazione di Giancarlo Brocci per un modo diverso di interpretare il ciclismo, e quindi la bicicletta, ha fatto in modo di rendere competitivo, e professionistico, ciò che è nato e continua a essere non competitivo, e amatoriale, nel senso di amore per la polvere, lo sterrato e la bicicletta: L’Eroica.
Sabato 2 marzo la Strade Bianche, nata Monte Paschi Eroica nel 2007, diventa maggiorenne, compie diciotto edizioni. Si è allungata a superare i duecento chilometri, la distanza minima per superare l’essere corsa e diventare una supercorsa. Ha aggiunto chilometri di polvere e difficoltà, a dimostrare ancor di più, e ancor meglio, di essere una gran corsa, anzi una gran supercorsa.