Il Foglio sportivo
Perché adesso tutti vorrebbero Simone Inzaghi in panchina
Da dead man walking a uomo della seconda stella nerazzurra in undici mesi: la trasformazione del tecnico dell'Inter
Non più tardi di undici mesi fa, punita a San Siro da un gol di Giacomo Bonaventura, al terzo ko di fila dopo quelli contro Spezia e Juventus, l’Inter sembrava pronta a salutare Simone Inzaghi, anche a costo di affidare la panchina a un traghettatore promosso dalla Primavera come Cristian Chivu. E se a Beppe Marotta e Piero Ausilio va il merito di non aver imboccato la strada della disperazione, al tecnico nerazzurro va quello, enorme, di aver imparato dai propri errori. Era un dead man walking, intristito e in apparenza abbandonato, nella migliore delle ipotesi costretto a finire la stagione senza squilli di tromba in vista di una riconferma che non sarebbe mai arrivata. Si è ribellato a questo destino, costruendo il proprio futuro con un’impensabile cavalcata in Champions League e con il successo in quello che è uno dei suoi rifugi prediletti, la Coppa Italia. Forse non è un caso, ma quest’anno l’ha lasciata andare in fretta: aveva altre mire, Simone da Piacenza, che a meno di episodi di autodistruzione sarà l’uomo della seconda stella interista. In questi anni ha smussato angoli difficili da limare, ha cancellato un sottofondo di nervosismo neanche troppo latente che talvolta bussava alla porta di un ragazzo cresciuto cercando con insistenza la via della rete, quella strada che veniva naturale al fratello Filippo. Il destino ha voluto bilanciare le loro carriere, restituendo a Simone la gloria che non era riuscito ad avere fino in fondo da calciatore a causa degli infortuni.
Il primo incarico era arrivato grazie all’intuizione di Claudio Lotito, uomo dal multiforme ingegno, senz’alcun dubbio abilissimo nel fare di conto: un anno rimanente da contratto da calciatore trasformato in un triennale da tecnico delle giovanili. Inzaghi, divorato dai problemi fisici, passava così da centravanti male in arnese a guida di ragazzi di quindici anni: qualcuno di loro lo avrebbe seguito fino in prima squadra, come Lombardi e Crecco. Ad alcuni quell’incarico sembrava un atto dovuto, invece Lotito e Inzaghi ci avevano creduto per davvero. Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, ormai da anni è un devoto del 3-5-2 dopo aver puntato tanto sul 4-3-3 a inizio carriera. Al suo fianco, dal 2014, c’è Massimiliano Farris, e da ancora prima sono con lui il preparatore atletico Ripert e il match analyst Cerasaro, perché ok, si può cambiare, ma a patto di avere al proprio fianco delle persone di cui fidarsi.
Sul 3-0, contro l’Atalanta, a un tratto abbiamo sentito San Siro eruttare, sull’ennesima ripartenza mandata giù a memoria, livelli di calcio spaziale contro un avversario tramortito, che avrebbe terminato la sua serata con quattro gol sul groppone come era già capitato, in serie, a Roma, Salernitana e Lecce. La palla rasoterra che si muoveva da destra verso sinistra, il tacco di Lautaro Martinez per la sgroppata di Dimarco, il cross a tagliare verso Dumfries soltanto leggermente lungo. Un’azione che non ha portato né a un gol, né a un tiro, ma che profumava di onnipotenza. Quest’Inter è in fiducia perché a essere in fiducia è il suo allenatore, che ha imparato a preservare le corde vocali, rendendo pallido ricordo i momenti in cui si presentava in sala stampa con un filo di voce, e ha fatto tesoro delle sconfitte più che delle vittorie. Un adagio abbastanza diffuso nel mondo dello sport sostiene che prima di vincere sia necessario perdere, e Inzaghi, nei suoi primi due anni interista, ha soprattutto perso: ha visto scappare via uno scudetto che per un’ora e un quarto del derby di ritorno sembrava già suo.
Riguardare quella stracittadina è un momento educativo: si riscopre che in quell’Inter c’erano già i germogli di quella attuale, una squadra a tratti padrona del campo. E si scopre, a dirla tutta, anche che Inzaghi non è più quello di due anni fa, che perdeva un derby cruciale anche a causa di sostituzioni che parevano fatte col pilota automatico. Sono cambiate le letture dei momenti, il peso dato a ogni singola folata di vento che può spostare gli equilibri di una partita in uno sport per natura soggetto ai ribaltoni. Adesso Simone sa gestire da timoniere esperto anche la burrasca, lui che in una notte austriaca aveva visto la sua Lazio venire travolta all’improvviso contro il Salisburgo, passando in 21 minuti dallo 0-1 al 4-1 che voleva dire eliminazione dai quarti di finale in Europa League. Gli era già successo qualcosa di simile qualche mese prima, anche se era finita bene: Supercoppa italiana in pieno controllo, avanti 2-0 all’Olimpico con doppietta di Ciro Immobile, poi due gol di Dybala in coda a riequilibrare tutto. Sembrava finita quando era spuntato un altro dei suoi ragazzi di lungo corso, Alessandro Murgia, a mettere il piede su un cross rasoterra del primo Lukaku incrociato da Inzaghi durante la sua carriera, Jordan: oggi è all’Adanaspor mentre Murgia gioca in Romania, all’Hermannstadt, e quella sera corse come un bambino sotto la sua curva Nord, in maniche di camicia, ad abbracciarlo, c’era anche Inzaghi, stralunato, spettinato, pazzo di gioia.
Una manciata di mesi fa, l’altro Lukaku, Romelu, con qualche sbavatura di troppo sotto porta gli ha tolto una gioia che sarebbe stata ben più grande, dopo aver tenuto il campo in maniera a tratti impeccabile contro il colosso Manchester City. Leggenda vuole che Big Rom non avesse gradito la scelta del tecnico di preferirgli Edin Dzeko, l’uomo che nei momenti decisivi non aveva mai tradito la fiducia del piacentino: quello di Istanbul era già un altro Inzaghi, più concentrato, più maturo, pronto a diventare grandissimo dopo essere stato solo grande, ed era andato dritto per la propria strada. La stessa che gli aveva consentito di salvare Luis Alberto da una spirale depressiva che lo aveva portato a valutare il ritiro; di sublimare il talento di Milinkovic-Savic e la fame di gol di Immobile, di inventare Calhanoglu regista dopo anni di domande sul suo ruolo effettivo; di far volare Dimarco, di rendere Thuram una punta spietata. La stessa che l’ha portato a essere, da dead man walking, l’uomo della seconda stella.