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Il Foglio sportivo

La saggezza di David Moss: “Il basket non è uno sport per fighetti”

Massimiliano Bogni

Ora l'ex cestista aiuta il coach di Brescia e dà una mano ai giovani che muovono i primi passi nel mondo della pallacanestro 

Oggi è la migliore versione di David Moss: sono più intelligente, ho più pazienza e desiderio di giocare per la squadra. All’inizio ero più egoista, concentrato sulle mie cose. Ora penso solo agli altri”. Se non sapessimo che David Moss, raggiunta la soglia dei 40 anni, ha deciso in estate di trasformarsi da capitano della Germani Brescia a Player development coach dello staff di Alessandro Magro, dalle sue parole non si direbbe. Si riferisce al parquet col tempo presente, come l’incapacità di un agonista con l’esperienza maturata in 17 stagioni da cestista professionista in Italia di recidere il cordone che lo lega alla voglia di “essere in campo in qualsiasi modo”. Dalla scorsa stagione, Brescia è stata la prima società italiana ad aggiungere allo staff tecnico la figura che prima è stata di Isaac Jenkins e ora è di Moss, segnando un prima e un dopo per le altre squadre – al momento l’altro assistente con la stessa nomenclatura è Veljko Perovic a Venezia, ma dalla prossima annata diverse altre ne inseriranno – e un ponte con la metodologia di sviluppo e di lavoro tanto sdoganata in Nba quanto osteggiata, con eccessivi pregiudizi, in alcune risacche del pensiero europeo. È lo stesso Moss a mostrarsi fiducioso sul percorso intrapreso, anche per una conoscenza più trasparente della pallacanestro globale: “Se si ha l’opportunità di mescolare le due cose è un vantaggio: acquisisci nuove abilità che prima magari rappresentavano una tua debolezza. In Europa e in Italia siamo un po’ dietro, ma la pagina del libro la stiamo girando tutti insieme”. 


I primi passi, dunque, che un padre ed ex giocatore non può non sottolineare come fondamentali sin dall’istituzione formativa di base, che dovrebbe garantire gli stessi stimoli di apprendimento intellettuale e corporeo. Anche attraverso gli occhi del figlio Mattia, invece, Moss sottolinea come “a scuola e in palestra stiamo perdendo tanti bambini dietro al cellulare o altro, e mi dispiace”: un approccio che non favorisce la formazione né dell’essere umano né tanto meno dell’atleta, a livello relazionale ancor prima che tecnico. Avendo la possibilità di assistere dal vivo a diverse partite di giovanili o serie minori, quello che colpisce di più David Moss è proprio questo. “Tanti giocatori giovanissimi hanno questo pensiero: voglio essere un buon giocatore, devo fare il fighetto. Vogliono mostrare di non fare fatica. Parlano persino male all’allenatore: fino ai 20 o 25 anni non hai niente da dire, non hai fatto niente nella tua carriera, devi solo stare zitto e ascoltare. Magari l’allenatore sta sbagliando, ma devi stare zitto e ascoltare”. Quando Moss si riferisce alle debolezze di ogni giocatore indica non solo alle percentuali al tiro o ai miglioramenti specifici sui vari aspetti offensivi e difensivi nel contesto di squadra, ma il saper trarre beneficio dal confronto con la sconfitta e chi la vive con te.


Chiedere a un campione come Moss – 4 Scudetti e 4 Coppa Italia, la metà dei quali revocati dopo la sentenza della Fip relativa alla MontePaschi Siena del biennio 2011-13, e 2 Supercoppe Italiane – quale sia la vittoria più significativa della carriera, anticipa una risposta per certi versi inattesa ma che, nei fatti, esemplifica al meglio il perché sia stato Moss il capitano “anche quando non lo ero a referto, nell’ultimo anno a Siena come a Milano” di diversi trofei della pallacanestro italiana del nuovo millennio: “L’anno da senior a Indiana State stavo giocando a livello altissimo. Tante squadre Nba venivano a vedermi, abbiamo iniziato 8-0. Abbiamo vinto contro Indiana, numero 1 nel paese. Due settimane dopo la prima partita di Conference mi sono rotto la gamba: ero al top e poi in un secondo ho perso tutto. Perdere così presto e così tanto mi ha dato un’altra energia per mostrare a me stesso che avrei potuto aiutare a vincere assumendo qualsiasi ruolo”. Per far parte della Siena 2012/13, il cui quinto posto al termine della stagione regolare non ha impedito di ribaltare i favori del pronostico in tutte le serie playoff e della Milano dell’anno successivo, dopo che “erano 18 anni che l’Olimpia non vinceva nulla”, sono state quindi la parole dei veterani incrociati nei primi anni di carriera e la flessibilità di abbracciare il cambiamento senza rifiutarlo categoricamente. “A 13 anni stavo vivendo a Chicago, nella mia casa di infanzia: mia madre ha sposato una nuova persona, ci siamo trasferiti. Lì ho scoperto il mondo fuori, è stata la mia prima scuola di vita. A 17 anni ho lasciato casa: ho dormito sul divano di amici. Ho capito chi fossi come persona, potevo vivere fuori casa di mia madre. A 18 anni sono andato a Indiana State: uno stato diversissimo dall’Illinois, pochissime persone con la pelle come me, quasi nessuno di Chicago…”.

Sono esperienze che con un campo da basket hanno poco o nulla a che fare, ma che possono ugualmente segnare la giusta predisposizione al contribuire a un obiettivo comune. A riconoscere quanto, chi e come possa ergersi a leader di un gruppo: “Gentile era troppo giovane, fortunatamente per lui c’era (Olimpia Milano 2013-14, ndr) qualche veterano come me, Keith Langford, Curtis Jerrells… Anche a Brescia, all’inizio (2015/16, ndr) era capitano Alessandro Cittadini, ma sin dal mio arrivo mi sono messo a disposizione di tutti con il mio modo di lavorare. Per tantissimo sono stato esempio senza usare la parola: negli ultimi anni ho iniziato a usare molto più la voce perché era importante. Nei momenti difficilissimi parlo molto di più: le parole servono in questi momenti, non in altri”. Le stesse che, non potendo né volendo esercitare la stessa fisicità e aggressività che aveva da giocatore, David Moss ha imparato ad adoperare da Player development coach e soprattutto da padre, mestiere per il quale “puoi pensare che stai facendo cose buone, che tuo figlio possa diventare un’altra persona, ma in realtà non si sa mai”. Un David Moss che pensa solo agli altri, la migliore versione di sempre.

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