1966-2024
Da Brooklyn a Firenze. Addio a Joe Barone, nobile guardiano del fortino della Fiorentina
È morto a cinquantasette anni il direttore generale della Viola. Era ricoverato al San Raffaele di Milano da domenica pomeriggio, dopo l’infarto avuto in albergo prima della sfida contro l’Atalanta a Bergamo
Chissà cosa pensava, Giuseppe Barone da Pozzallo, provincia di Ragusa, nel momento in cui si è trovato davanti Brooklyn, con la malinconia di un bambino costretto a lasciare la terra in cui era cresciuto e gli occhi spalancati su un mondo ancora tutto da scoprire, da conquistare, da vivere. Era soltanto un ragazzino a cui piaceva da matti correre dietro a un pallone e a forza di inseguirlo, quel dannato pallone, l’Italia se l’è ripresa svariati decenni dopo, con l’orgoglio di chi non ha mai dimenticato le proprie origini. “Io sono il nobile di Pozzallo”, aveva risposto, mostrando un tono fiero e i tempi di reazione di chi ha sempre la battuta pronta, a un discendente della famiglia Pontello presentatosi all’Hotel Savoy il giorno dopo la conferenza stampa di insediamento di Rocco Commisso come nuovo presidente della Fiorentina. La frase detta dal patron – “Chiesa non sarà un nuovo Roberto Baggio”, peraltro clamorosamente smentita dai fatti nei mesi a venire – aveva fatto infuriare a tal punto il discendente da indurlo a cercare il faccia a faccia, mettendo in scena un grande classico italiano, quello del “lei non sa chi sono io”. L’io, in questo caso, era un noi: “Siamo i Pontello, i nobili di Firenze”, affronto che aveva scatenato in una frazione di secondo l’orgoglio di Barone.
In un mondo in cui nessuno vuole essere Robin, Barone si è calato alla perfezione nel ruolo di spalla, braccio destro, uomo cui affidarsi anche quando intorno infuria la bufera. Il suo rapporto con Commisso era di data lunghissima: Rocco, che era arrivato in America da Marina di Gioiosa Ionica, lo aveva conosciuto nella vasta comunità italo-americana di New York e visto per la prima volta alle prese con un pallone in una delle tante partite giocate da Barone con la squadra di calcio del Saint Francis College, impegnato com’era a seguire i match della “sua” Columbia University. Una vita spesa fianco a fianco, dalla Mediacom ai Cosmos: Commisso imprenditore visionario e Barone nei panni dell’operativo indefesso, lo stesso ruolo che gli è toccato in sorte nel momento in cui è andato in porto l’assalto alla Fiorentina. Barone che non lascia mai Firenze, a guardia e garanzia del progetto; Barone che appare sempre un passo indietro quando il presidente si lascia andare nelle sue interviste fiume talvolta improvvisate, quasi a voler infondere serenità e solennità con la sua sola presenza sullo sfondo; Barone che per la Fiorentina c’è sempre stato, una mano stretta ai tifosi, un palleggio con i calciatori, la voglia di non rinunciare mai al confronto anche a costo di risultare scomodo, di mettersi contro qualche nome che conta.
Anche per questo, per questa sua centralità, per la presenza costante a difesa del fortino, il terremoto che ha travolto il mondo viola nel pomeriggio di domenica ha visto tutta la squadra e la società compatta: impossibile scendere in campo contro l’Atalanta pensando a quello che era successo a Barone, che negli anni dall’altra parte dell’Atlantico ha dovuto salutare il nome di Giuseppe diventando per tutti Joe. Sono corsi tutti da lui, sperando in un miracolo che non si è concretizzato: eppure, in un sistema sempre più squallido come quello calcistico italiano, c’è stato persino chi ha avuto da ridire sull’opportunità del rinvio, preoccupandosi delle date del recupero di una partita che nella testa dei giocatori viola, a quel punto, contava meno di zero. In molti, per riflesso incondizionato, hanno associato la tragedia che ha colpito Barone a quella che, sei anni fa, aveva portato via Davide Astori. Era marzo anche quella volta e nel gruppo della Fiorentina c’è ancora qualcuno che l’ha vissuto, quel dramma, da Biraghi a Milenkovic. Solo ora che non è più su questa terra, Barone si è riappropriato di quel nome, Giuseppe, che ce lo ha fatto improvvisamente sentire più vicino, anche se a sentirlo parlare, nelle interviste, quasi non c’era accenno alla sua americanità in una cadenza squisitamente meridionale. In cuor suo era rimasto quel bambino di otto anni, innamorato del pallone, arrivato a Brooklyn con gli occhi spalancati su un mondo ancora tutto da scoprire.