Il Foglio sportivo
Verso la March Madness. Il college basket visto da dentro
Il racconto di Riccardo Fois da Olbia all’America: “La vita universitaria è come il tifo calcistico da noi”
Anche a poche ore dal sorteggio che avrebbe accoppiato Arizona con Long Beach State nel primo turno della March Madness, discutere di pallacanestro con Riccardo Fois è un confronto che abbraccia una visione più profonda. Che si parli di College, Nba o Italbasket. Che lo si faccia da direttore del comparto analytics (Gonzaga, 2014-19, ndr), Player Development Coach (Phoenix, 2019-21, ndr) o come assistant coach (Arizona e Nazionale, ndr). A prescindere dai coach ai quali ha fornito supporto, il filo rosso è stata proprio “la capacità di creare un’etica e una cultura del lavoro dove sia piacevole andare in palestra e migliorarsi. Il quadro complessivo è sempre più importante della singola partita ed emozione. Avere giocatori che non vedono l’ora di andare ad allenarsi, di mettere la maglia azzurra, di Arizona, Gonzaga o Phoenix è fondamentale per avere un gruppo ambizioso”.
La stessa ambizione che ha spinto Fois a sperimentare, da adolescente prima e universitario poi, il mondo della pallacanestro americana. E che, al di là degli sviluppi della carriera da cestista, non può non segnare in positivo per il resto della vita, per l’apertura a una visione non solo diversa – “Se un ragazzo viene al college dopo aver completato il suo percorso in Italia, secondo me non si perde niente. Quando vai all’estero è un ricominciare da zero, sia cestistico che di vita, che ti arricchisce nel bene e nel male, sia che tu abbia successo, sia che se tu fallisca. Ti porta a conoscere culture diverse: è un arricchimento personale che non porta nessun ripensamento” – ma anche migliore, soprattutto nel considerare il valore dello sport nel percorso di crescita e formazione – “Qui è talmente importante la vita universitaria che ha un valore al di là dello studio… Da noi un paragone è la fede calcistica: quando uno frequenta un’università americana è legato a quella per tutta la vita. Il concetto dell’importanza dello studio unita a quella dello sport permette a un giocatore e a uno studente di poter essere entrambe le cose al massimo livello. In Italia non si è così legati alla propria università: nel momento in cui vai via, a parte dire ‘Sono stato lì’ non c’è più nient’altro”.
Un legame con gli Stati Uniti intessuto lavorativamente dal 2012, compensato da qualche estate a questa parte con l’esperienza sulla panchina di Italbasket. Fois trova in azzurro non solo “sfogo e svago nel lavorare con altri italiani”, ma il rinnovamento del rapporto con Gigi Datome, oggetto inevitabile di conversazione se si parla di basket italiano. “Siamo ragazzi che vengono da Olbia, non esattamente la culla cestistica né italiana, né sarda... Con Gigi tenevamo tantissimo a finire un percorso che avevamo iniziato insieme quando avevamo otto anni. Finirlo con una medaglia al Mondiale era il nostro sogno, non si è avverato. Andare all’Olimpiade è un sogno che lui ha avuto: sarà la stessa gioia se ci andremo io da allenatore e Gigi da capodelegazione”.
Così come Datome in Nazionale, anche il resto della carriera di Rick Fois ha sempre sfiorato la vittoria finale: un problema, nella considerazione dei valori espressi nei vari percorsi? “Chris Paul, un fenomeno assoluto, ha fatto una sola finale Nba in carriera, fa capire quanto sia difficile già solo arrivarci. Uno dei più vincenti che abbia mai conosciuto, e viene giudicato non vincente, come John Stockton. Ho avuto la fortuna di andare a una Final Four, a un minuto dal titolo Ncaa, e sono stato in una Nba Finals: ci sono allenatori molto più bravi di me, che hanno vinto centinaia di partite, e non ci sono mai arrivati. Ci sono allenatori bravissimi in Italia che non hanno avuto la fortuna: sento il dovere di far bene perché potrei aiutare qualcun altro a vivere una carriera come quella che sto vivendo io. Siamo stati ai quarti del Mondiale per la prima volta dal 1998… Se si crea una cultura, dove il lavoro quotidiano è la passione, si diverte ogni giorno, si sveglia col sorriso. Sono quelle le vere vittorie”.
Ancor più di quelle sul campo, quindi, sono quelle ottenute nel maturare insieme a giocatori e staff ad avere un peso lungo la carriera. Chi meglio di Fois, che ha fatto esperienza di professionisti americani ed europei, di non ancora pro’ statunitensi e internazionali, per indicare alcuni assiomi per porsi di fronte e al fianco di un gruppo di lavoro? “La differenza è sul momento della vita in cui incontri queste persone, il bisogno che loro hanno di un coach che li aiuti nella loro crescita. I giocatori sono a tutti gli effetti investimenti per le proprie squadre: bisogna cercare di trattarli nel modo giusto, che possano esprimere il massimo, continuare a crescere anche fuori dal campo. Devo essere onesto, trattare i giocatori secondo la persona che sono io. Chiaro che ci sono differenze: i professionisti spesso sono padri di famiglia, hanno già un vissuto, si crea un’amicizia professionale. Molti collegiali hanno bisogno di una guida, che li aiuti a pensare in un certo modo. Al di là di come li tratti come giocatori, il rapporto che si instaura spesso è quasi paterno”.