Il Foglio sportivo
Quando l'arbitro poteva essere un amico dei calciatori. Parla Paolo Casarin
"Davo del tu a tutti, dai comprimari ai fuoriclasse come Maradona, il più grande". Casarin si racconta: dall'infanzia a Mestre all'amicizia con Maradona. Il colloquio
Le tante vite di Paolo Casarin, l’arbitro che dava del tu ai giocatori e oggi a 83 anni, continua a commentarlo sulle pagine del Corriere della Sera. Da dove cominciamo?
“Sono nato il 12 maggio del 1940. Vivevamo a Mestre, un nodo ferroviario nevralgico, perché ci passavano tutti i treni che da Milano andavano a Trieste. In virtù di questa posizione strategica, eravamo il bersaglio preferito di un dannato aereo, che ogni notte buttava giù dal cielo una grandinata di bombe e che familiarmente chiamavano Pippo. I primi cinque anni della mia vita furono riempiti dalla preoccupazione di prendere una bomba in testa”.
Non c’era tempo e testa per tirare calci a un pallone come i bambini di tutto il mondo?
“Non ho avuto la possibilità di coltivare un talento calcistico, peraltro a denominazione d’origine inesistente. Sì, perché, guerra o non guerra, con il pallone fra i piedi ero un’autentica frana, ma non volevo restare a guardare, senza partecipare. Non è stata per una mistica vocazione, ma esclusivamente per rimediare a una mia inettitudine, che ho fatto l’arbitro di calcio”.
Ha avuto un mentore che le ha suggerito una scelta rivelatasi poi provvidenziale?
“Un mio vicino di casa, tornitore per mestiere, giocava con la Mestrina, che aveva una meravigliosa maglia arancione. È stato il mio primo, e forse unico, amico del cuore. Si chiamava Dino Panzanato e, come calciatore, avrebbe fatto carriera, arrivando a giocare quasi duecento partite con il Napoli. Mi disse, senza mezzi termini, che con il pallone ai piedi proprio non ci sapevo fare e che l’unico modo per restare dentro il campo sarebbe stato quello di mettersi addosso una giacchetta nera”.
Come la convinse?
“Per incoraggiarmi mi disse che di scarsi ne aveva incontrati tanti ed era, quindi, impossibile che io potessi fare peggio di loro. Non battei ciglio e mi iscrissi alla sezione arbitrale di Mestre, dove erano transitati Gino Rigato e Aurelio Angonese, che avrebbe arbitrato ai mondiali tedeschi del 1974. Era il marzo del 1958, l’anno in cui il Brasile del giovane Pelé conquistò a Stoccolma la Coppa Rimet. Di lì a poco nel 1960, appena compiuti vent’anni, fui assunto all’Eni, all’epoca capitanata da Enrico Mattei. Ancora oggi abito a Metanopoli, il quartiere di Milano, dove è ubicata la sede storica dell’Eni”.
Partiamo dall’inizio.
“Ho incominciato arbitrando una partita fra ragazzi a Oderzo, la città del trevigiano che ha dato i natali a Gianfranco Zigoni. Sarei arrivato ad arbitrarne esattamente duecento in serie A e centocinquanta in serie B. Più il mondiale di Spagna del 1982, l’europeo dell’88 dove ho arbitrato la mia ultima partita in assoluto e, da designatore, il mondiale del 1994 negli Stati Uniti. Tutto era nato dalla mia straordinaria amicizia con Panzanato. Forse è per questo che ho considerato i calciatori, quale lui è stato, amici a cui era naturale dare del tu”.
Dava del tu a tutti?
“A tutti, fuoriclasse o comprimari del pallone che fossero. Essere amico dei giocatori mi ha peraltro creato, nel corso della mia carriera, più di un problema. Mi è rimasto impresso quel che accadde durante un derby fra Torino e Juventus. C’era stata un’entrata decisamente scomposta su un ginocchio di Antonio Cabrini che aveva preso a sanguinare. Lui attirò subito su di sé la mia attenzione gridando: “Paolo guarda che mi hanno fatto”. Alla fine della partita alcuni giocatori del Torino fecero notare come a me venisse naturale dare del tu a quelli della Juventus. Il bello fu che, quando i cronisti si asserragliarono davanti al mio spogliatoio per chiedermi conto del tu rivolto agli juventini, passò per caso, proprio dove erano assiepati, l’allenatore del Torino Gigi Radice, che mi salutò con un “ciao Paolo”, che di fatto zittì sul nascere la polemica sul tu utilizzato, al posto del canonico lei”.
Che cosa significava arbitrare?
“Per me arbitrare una partita era come stare a una gita fra amici e lo è rimasto sino al calar del sipario di Olanda-Inghilterra, la partita del commiato. C’è una foto, pubblicata su un giornale della FIFA, in cui si vede Ruud Gullit abbracciarmi con affetto. Aveva saputo che quello era il match del mio addio. Quell’immagine contraddiceva alla base l’abusato cliché della rigidità arbitrale e della distanza, quasi un ossequio regale, che il signor arbitro, come voleva esser chiamato, per fare un esempio, il leggendario Concetto Lo Bello, doveva far rispettare".
Lei è diventato quello che è diventato, arbitrando negli spazi temporali consentitigli dal suo oneroso e gratificante lavoro come dipendente dell’Eni in giro per il mondo, che gli ha fatto conoscere da vicino l’iperbolico numero di 108 paesi…
“Non ho mai pensato di lasciare il mio lavoro per arbitrare a tempo pieno anche perché, ai miei tempi, con il fischietto in bocca non si poteva vivere. A parte l’Australia, ho conosciuto il mondo intero. Con una menzione speciale per l’Argentina, dove ogni volta mi sembrava di tornare a casa, perché lì stavo per emigrare, insieme alla mia famiglia nel 1946, quando in Italia era tremendamente difficile per tutti trovare un lavoro e ricominciare da zero. Quel viaggio della speranza svanì nel nulla poco prima di salire sulla nave, perché mio padre trovò in extremis un lavoro a Mestre”.
A quanto pare, però, la sua predilezione, dettata da un’affinità spirituale e dal fascino che su di lei esercitano alcuni rituali, in qualche misura magici, era per il Nepal e il Tibet…
“A monte c’è la fascinazione esercitata su di me delle montagne sparse per il mondo. Ero rimasto estasiato dalle Ande che attraversano il Sudamerica, dai monti della Colombia, della Bolivia e dell’Ecuador, con la sua capitale Quito a quasi tremila metri d’altezza. Mi è venuto naturale accostarmi a tutto quello che più esulava dai miei riferimenti di cittadino del mondo sì, ma nato e allevato in Occidente. Per lavoro sono stato in India e per otto mesi in Cina, nel periodo in cui è morto Mao Tse-tung. Lì vicino c’è il Nepal e soprattutto il Tibet, l’altopiano più alto del mondo, che ho visitato in un secondo momento con la mia famiglia, dove la spiritualità, che pervade ogni montagna, raggiunge, a mio giudizio, il suo apice estremo. Un viaggio denso di avventure e di episodi, che mi hanno segnato nel profondo. Non potrò mai dimenticare quel monaco tibetano che a Lhasa si fa strada fra migliaia di persone stupefatte, viene verso di me, mi mette la mano sul cuore e mi guarda in fondo agli occhi, come solo i tibetani e quelli che vivono in alto sanno fare, lasciando per sempre qualcosa di meravigliosamente indefinibile dentro di me. Nel 2008, due anni dopo quell’indimenticabile emozione vissuta in prima persona, sono stato colpito da un infarto, da cui sono uscito miracolosamente vivo, nonostante tutti intorno a me avessero perso ogni speranza. A quelle forze occulte, che uno può solo immaginare, sono intimamente legato, come a una parte insopprimibile di me. Ho visto con i miei occhi cose stupefacenti anche in altre parti del mondo. Come a Mogadiscio, dove nella villa dell’ambasciatore un leone prendeva a calci e poi si sedeva sopra il pallone che gli avevo regalato e l’ippopotamo che ogni pomeriggio, all’ora del tè, si grattava la schiena proprio davanti all’ingresso della fattoria, dove ero stato gentilmente invitato”.
A me sembra che esista una spiritualità anche nell’arbitraggio. L’arbitro è l’unico spettatore dentro il campo…
“Forse è per questo che io credo di amare il calcio anche più dei calciatori e degli allenatori. Ho visto tutto proprio intorno a me: prodezze mirabolanti ed errori pacchiani, grida di gioia e lacrime, abbracci e scoramenti. Nel 1968 sono stato per un anno intero in quella che allora era ancora la Cecoslovacchia. Tornavo in Italia solo per andare ad arbitrare qualche partita. Una mattina vado come sempre negli uffici della raffineria di Bratislava, che era stata strategicamente edificata in riva al Danubio e leggo lo spavento allo stato puro negli occhi della gente. Mi portano a vedere il sinistro spettacolo dei carri armati del Patto di Varsavia, che erano guidati da ragazzi in erba, provenienti con ogni probabilità dalla Siberia. Abbiamo trovato un riparo sicuro in un albergo molto protetto, dove talvolta facevo colazione insieme ad Alexander Dubcek, il leader carismatico della Primavera di Praga. Erano i giorni, in cui lo studente Jan Palach si diede fuoco davanti a carri armati molto più minacciosi di quelli solamente dimostrativi di Bratislava. Ricordo, come se fosse ieri, quando i dipendenti della raffineria mi dissero che le scorte alimentari delle loro famiglie stavano finendo e non avevano più niente da dare da mangiare ai bambini. Li tranquillizzai. Andai in Austria, grazie ad un passaporto speciale che mi consentiva di oltrepassare indenne la cortina di ferro e di rientrare alla base in ogni momento, seppure affrontando ogni volta controlli meticolosi, per usare un eufemismo, con i mitra puntati ad altezza d’uomo. In Austria acquistai in grande quantità tutta la frutta reperibile. Ricordo che di ritorno al confine, quando videro che a bordo c’era tutta quella frutta, mi chiesero a chi fosse destinata. Spiegai loro che era per i miei colleghi della raffineria. Mi dissero che anche loro avevano dei figli e parte del carico, che avevo a bordo, a quel punto finì, a gentile richiesta, nelle mani di chi era lì per controllarmi”.
Il calcio non è più quello di una volta neppure per gli arbitri di allora?
“Capitavano cose che oggi sembrano inimmaginabili. Una volta dovevo tornare dal Brasile il sabato sera per arbitrare Torino-Juventus. La notte avrei dormito a casa e la mattina seguente avrei preso, di buon’ora, il treno per Torino. Il problema fu che la notte la trascorsi in bianco e sprofondai, una volta sul treno, in un sonno pesante. Fui svegliato di soprassalto da una mano pietosa, quando eravamo già da qualche ora in stazione. Guardai l’orologio e temetti di aver combinato un guaio irreparabile, al punto da far rinviare il derby per colpa mia. Scoprii che erano ancora le 13.40. Mancavano cinquanta minuti all’inizio della partita. Presi al volo un taxi e arbitrai forse una delle migliori partite della mia carriera. La mia fortuna fu che piovve a dirotto durante tutti i novanta minuti. Era la doccia, di cui avevo un urgente bisogno, caduta direttamente dal cielo. Capii, una volta per tutte, che sono solo balle quando si dice che uno per arbitrare bene debba per tempo prepararsi a puntino. La verità è che devi solo stare bene dentro di te, libero da rancori e pregiudizi che ti possano annebbiare la mente e indebolire il cuore. Il calcio di allora obbediva a regole storiche, che non cambiavano mai di una virgola. Erano sempre le stesse sia per il fuorigioco, sia per il rigore. E tu arbitravi, guardando in faccia i calciatori e cercando di capire la genesi di ogni fallo. Non era, come adesso, dove tutto sembra prestabilito. Fallo di mano con il braccio distante dal corpo è sempre rigore. Allora bisognava accertare se era volontario e questo faceva tutta la differenza del mondo. C’era una casistica, ampia come i quiz per la patente di guida, ma a decidere eri sempre e solo tu. Era quello il vero gioco del calcio. L’arbitro era un analista che aveva a disposizione solo pochi secondi per la sintesi finale. E si fischiavano quaranta falli per partita, il doppio di quelli attuali. Venti falli sono stati cancellati, nessuno ha mai capito il perché, e magari quelli che si fischiano sono pure inventati. Nei quarant’anni, che vanno dal 1950 al 1990, è rimasto tutto invariato, a parte le sostituzioni. All’inizio solo il portiere e, poi, l’aggiunta di altre due. Pelé, Garrincha, Maradona, Van Basten, Gullit, Cruijff, Gigi Riva e altri inarrivabili campioni erano, non a caso, gli amatissimi protagonisti di quel meraviglioso calcio, governato da poche e sacre regole. Il gioco era dominante. Loro ci mettevano l’estro. Noi configuravamo il quadro, entro il quale potevano liberarlo”.
A proposito di Maradona, lei con il Pibe de oro ha avuto un rapporto speciale…
“Ai mondiali di Italia ’90 ero una sorta di supervisor tecnico e logistico di Luca Cordero di Montezemolo. In questa veste mi è capitato di andare a Trigoria, dov’era il quartier generale dell’Argentina e di prendere in braccio le figlie di Maradona. Da argentino mancato, ero un loro amico per vocazione. Ho avuto un rapporto straordinario non solo con lui, ma anche con suo padre, che mi raccontò per filo e per segno tutta la sua vita. Nel Duemila all’Hilton di Roma la FIFA aveva organizzato un evento per decidere se il più grande di sempre fosse stato lui o Pelé. Venni a sapere che era già tutto già deciso in favore di Pelé, prescelto perché non aveva a carico i presunti peccati di Maradona. Io, che ero fra i giurati, armai un gran casino. Toccarmi Maradona era come colpire uno di famiglia. Alla fine non ci fu un vincitore, ma un salomonico ex aequo. È stata sicuramente una delle più grandi soddisfazioni della mia vita dedicata al calcio e allo sport”.
Ma quale era stato il vostro rapporto in campo?
“Maradona con gli arbitri era correttissimo, ma aveva sempre le scarpe slacciate. Lo invitavo regolarmente ad allacciarsele, ma lui resisteva, sostenendo che allacciate le scarpe gli facevano male. Gli dicevo che, se non se le fosse allacciate, poteva capitare che io fischiassi a suo favore un rigore, che magari non c’era. Mi rispondeva che non voleva nessun rigore, a patto che lo facessi continuare a giocare con le scarpe slacciate. Questo era il Diego Armando Maradona che ho conosciuto e amato. Forse il più grande a cui ho dato del tu. Ho arbitrato centinaia di partite. Non sono mai stato il signor Paolo Casarin. Ma solo l’amico di tutti e di nessuno”.