Un murales di Giacinto Facchetti - foto via Getty Images

Il Foglio sportivo

Capitano, mio capitano: com'è cambiato il ruolo di quelli che indossano la fascia

Umberto Zapelloni

La trasformazione di questa figura raccontata al Foglio da Gianfelice Facchetti, figlio di Giacinto: "Hanno perso la loro forza attrattiva e magnetica. È una figura che va ridisegnata"

Indossare quella fascia è una cosa seria. Sono pochi centimetri quadrati di stoffa, ma hanno un peso non indifferente. O meglio lo avevano. Perché oggi, diciamolo con un po’ di nostalgia, ma anche con parecchio realismo, non ci sono più i capitani di una volta. Quelli che andavano oltre la fascia indossata sopra la maglia. Quelli che rispettavi anche se il tuo cuore batteva sotto altri colori. Otto di quei capitani infiniti sono sulla copertina dell’ultimo libro di Gianfelice Facchetti, uno che di capitani se ne intende, visto che papà ha indossato per tanti anni la fascia bianca sulla maglia Azzurra della Nazionale. Sono Giacinto Facchetti, ovviamente, Agostino Di Bartolomei, Roberto Baggio, Valentino Mazzola, Javier Zanetti, Gigi Riva, Gaetano Scirea e Franco Baresi. Provate a pensarci un attimo, solo un attimo. Che cosa hanno in comune questi campioni immensi? Non avevano bisogno di tante parole per farsi rispettare. Sono uomini per i quali, come fa Gianfelice, si può parafrasare una frase di Paolo Conte: il capitano è nell’anima e dentro l’anima per sempre resterà.
 

“Ci sono delle caratteristiche che accomunano i capitani – racconta Gianfelice – sicuramente la generosità, il fatto di distinguersi per essere capaci di dare qualcosa in più degli altri. Ci sono stati capitani con una leadership dettata dalle loro qualità tecniche, ma quelli che restano ancora di più nella memoria, che sono diventati universali, unendo i tifosi di tutte le squadre secondo me avevamo dei tratti comuni nel modo di comunicare, una sorta di gentilezza unita a un rigore che si vedeva all’esterno, ma anche nel modo di stare in campo. Persone di poche parole, con la capacità di passare dal campo al sentimento popolare, una giuntura che non è riuscita a tutti, anche a gente con dei numeri incredibili di presenze, di gol, di trofei alzati. Non tutti sono riusciti a entrare nel sentimento popolare e a restarci. Quelli che sono rimasti sono quelli che urlavano di meno, ma che avevano uno stile oltre al gioco che li ha resi riconoscibili oltre il loro tempo”.
 

Oggi i capitani sembrano aver perso un po’ di quella potenza di immagine che li accompagnava. “Non so se sia ancora un simbolo che parla in quella maniera. Credo che ogni tifoso avesse tre quattro coordinate: la partita che ricordava più di tutte, il gol indimenticabile, il campione del cuore e, secondo me, anche il capitano. Sono i punti cardinali su cui viene costruita la propria fede calcistica, la propria passione. Non so se oggi il capitano abbia ancora questa forza attrattiva e magnetica. Quando le cose andavano male per la tua squadra potevi sempre dire: però c’è lui… quelle che guardi anche quando le cose non girano”.
 

Ma non tutto è perduto. Tracce di capitani all’antica stanno ricomparendo: “È una figura che va un po’ ridisegnata. In questi anni abbiamo avuto dei passaggi di fascia dettati dal caso, dettati dai numeri. Cito nello stesso capitolo Icardi e Bonucci… capitani per caso. Icardi perde subito la fascia per un comportamento non all’altezza, Bonucci che non lo era stato alla Juventus dove sognava di diventarlo, lo diventa al Milan, ma dopo un anno torna a Torino… È una fase in cui si potrebbe ridefinire la centralità del capitano, tanto che io prendo come riferimento Di Lorenzo, Pessina e Bongiorno perché sono italiani, sono giovani. Uno ha vinto lo scudetto dopo 33 anni, Pessina è tornato al Monza dove era cresciuto, Buongiorno è partito dai pulcini del Toro e oggi è vice capitano. Forse c’è una nuova generazione di capitani che sta crescendo”. Uno a cui la fascia ha fatto certamente bene è Lautaro: ”Quando ha preso la fascia di capitano – conferma Gianfelice – ha fatto uno scarto in termini di consapevolezza. Lo si è visto in maniera molto chiara. Forse è arrivato il momento per rimettere il capitano al centro anche se con rose che cambiano continuamente è più difficile. Fa tutto parte di questo mondo liquido del quale il calcio e lo sport non sono esenti”. Ci sono poi racconti di uomini nati per insegnare, prendete Liedholm: “Lui ha passato la fascia a Cesare Maldini, poi ha lanciato Paolo, si è inventato Signorini a Roma che poi è diventato simbolo al Genoa e poi Antognoni a Firenze. Un vero maestro”.
 

La fascia è stata data a Lautaro con un senso. Spesso oggi viene affidata al giocatore con più presenze: “Forse è un segno di debolezza. In un calcio in cui sono sempre meno i giocatori capaci di interpretare lo spirito del club, chi si prende la responsabilità di cogliere queste sfumature che sono sottili… Allora ci si affida ai numeri per non sbagliare. Si fanno scelte più quantitative che qualitative”. Portieri capitani, un altro tema eterno: “C’è chi sostiene come  il capitano debba essere sempre nel cuore del gioco. Ma credo dipenda dallo spessore del giocatore, quando penso a capitani come Yashin o Zoff sono figure così monumentali che non avevano bisogno di correre dall’altra parte del campo per farsi rispettare. Anche Handanovic, uno degli ultimi portieri capitani del campionato, è sempre stato all’altezza”.
 

Dalla stagione 2018/19 la fascia è uguale per tutti. Basta con le interpretazioni personali. Un peccato perché c’era chi raccontava delle storie attraverso quella fascia che si arricchiva a seconda dell’evento. Il Papu Gomez, Javier Zanetti ne sono due esempi: “La situazione stava sfuggendo di mano… Per qualcuno però stava diventando quasi un’operazione di marketing.  Io mi chiedo: di quanti messaggi si può far portatore il calcio? Sentirne uno diverso ogni domenica fa perdere la potenza del messaggio stesso”. Ben detto.
 

Nel libro sono toccati solo di sfuggita due grandi capitani, Maradona e Totti. “Maradona ha un peso specifico enorme – spiega Gianfelice – ma l’ho messo di riflesso raccontando la storia di Juliano, cioè di chi lo ha portato. Non avevo una chiave diversa per aggiungere qualcosa di originale a quanto è stato scritto su di lui ultimamente. Totti sappiamo come è considerato a Roma, ma ho sempre avuto la sensazione di una sorta di incompiutezza che mi ha spiegato bene il libro di Walter Sabatini “Il mio calcio furioso e solitario”. Un calciatore di quel livello a Roma è costretto a farsi carico di così tante cose, che probabilmente qualcosa lascia. Poteva essere ancora di più di quello che è stato. Ma bisogna capire quanto sia difficile fare calcio a Roma, me lo diceva sempre anche papà. Totti è stato Roma e la Roma, ma qualcosa gli è mancato”. E per finire un pensiero per papà Giacinto. Era capitano anche a casa? “Lo era perché pensava sempre prima agli altri e al collettivo che a se stesso anche nelle situazioni più complicate”.