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Giocare a volley con il chador. Parla la coach Alessandra Campedelli

Manila Alfano

Dopo l'Iran l'allenatrice di volley seguirà la nazionale femminile pakistana. I duri compromessi fra lo sport e l’essere donna

Non prova vergogna Rabia a raccontarti la sua vita. Pipistrelli umiliati. Le aveva definite così le donne con il chador Oriana Fallaci. Lei però è un pipistrello che prova a volare giocando a pallavolo: nazionale femminile pakistana. Da pochi giorni la squadra ha un’opportunità in più: è arrivata ad allenarle una super coach, direttamente dall’Italia. Alessandra Campedelli, che piazza a ogni sfida l’asticella un po’ più in alto; nel suo curriculum ha la nazionale di pallavolo iraniana e ancora prima la Nazionale italiana sorde con cui ha ottenuto risultati importanti: un argento alle Deaflympics nel 2017, un oro agli Europei 2019 e un argento ai Mondiali 2021.

Con le ragazze iraniane è riuscita in un’impresa eroica issandole su un podio che non si vedeva dal 1966: seconde ai Giochi islamici, un’Olimpiade a tutti gli effetti, a cui partecipano 57 paesi. Hanno battuto in semifinale l’Azerbaijan, 40 posizioni più in alto nel ranking mondiale, per poi arrendersi solo alla Turchia. “Abbiamo fatto fin troppo rumore con quella vittoria e penso che non sia piaciuta proprio a tutti in patria”. Le donne meglio tenerle sempre un passo indietro; vale anche per le gare sportive, non c’è motivo che si impegnino troppo, l’importante è partecipare ma per facciata. “Il Pakistan per certi versi è una sfida ancora più grande rispetto all’Iran perché qui c’è anche la povertà vera. Le mie atlete spesso non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena. Mangiano poco e quello che mangiano spesso le fa stare male, è cibo scadente e ogni giorno ho almeno una ragazza in meno perché non riesce a scendere in campo, manca l’attrezzatura, perfino i palloni”.


Pipistrelli che parano i colpi della vita a suon di  bagher, schiacciate, muro. Non è facile farlo con tutto il corpo coperto e una maschera nera che ti soffoca e ti schiaccia sul naso. È dura riprendere fiato tirando boccate d’aria quando hai tutto tappato, chiuso, velato. Rabia non si lamenta mai perché da quando è piccola vive così, con il corpo ingombrato da metri di stoffa che le ostacolano i passi. La vita, gli allenamenti. Capita ogni tanto che abbia bisogno di prendere aria e allora scappa fuori, abbandona il campo, si nasconde a respirare forte per paura di soffocare. La coach lo ha notato fin da subito e all’inizio ha anche pensato di intervenire, di farle notare che così non si può. D’istinto l’avrebbe rimproverata evocando impegno, dedizione, professionalità, valori che a un certo livello fanno più presa che altrove: insomma, è la Nazionale, bandiera di un paese, immagine potentissima per tutte quelle che restano a casa a guardare, a immaginare che si può, pur essendo donna, pur mettendo in conto ingombranti compromessi. Poi però ha capito quello che noi fortunate donne occidentali non possiamo capire: senza la maschera quella giovane donna di diciotto anni non sarebbe lì nella squadra a giocare con le altre che si coprono solo la testa. Quello che indossa Rabia non è solo un velo, è un paradosso: il chador è la sua croce ma è anche la sua grande chance, il suo lasciapassare. Un mantello nero che, se indossato sempre e ovunque, fa la differenza tra un destino imposto e una vita da scegliersi. È la sua personalissima rivoluzione.


Un punto alla volta era il mantra del grande tennista Björn Borg  per vincere. Rabia, se vuole giocare la partita della vita, deve fare un passo alla volta. La battaglia si combatte con il mantello addosso o non si fa. “I patti sono chiari. Ho fatto una promessa solenne alla mia famiglia. Se voglio giocare devo farlo con il nijab integrale”. Altrimenti? “Altrimenti è una parola che non esiste. Me ne torno immediatamente al villaggio da dove arrivo dove mi aspetterebbe un matrimonio. Ma io voglio giocare a pallavolo”. Che importanza ha se è un compromesso? In fondo è un peso che si può portare. L’allenatrice le ha chiesto di rinunciare almeno alla maschera, come fanno tutte le altre, ma la sua cultura glielo vieta. “Mi verrebbero a riprendere per portarmi via”. Ma non glielo diciamo, ha perfino provato a ipotizzare la Campedelli. Non lo diciamo a nessuno, qui, ci siamo solo noi, non ci sono giornali, non ci sono televisioni, nessun video esce da qui, la palestra è al  chiuso e gli allenamenti si fanno senza pubblico. Rabia ha spalancato quei suoi occhi abituati a essere l’espressione di un intero volto tenuto sotto coperta. “Lo saprei io e questo basterebbe. Davanti a Dio non posso mentire, non voglio mentire”. 


A casa, lontano dalla capitale, in un villaggio al confine con l’Afghanistan l’aspetta la sua famiglia, di origine pashtun. Il termine “talebano” viene da “talib” che in pashtu significa “studente delle scuole coraniche”. L’occidente si è accorto di loro alla fine degli anni Settanta quando si sono organizzati in gruppi armati per combattere l’invasione dell’Afghanistan da parte delle truppe sovietiche. All’epoca erano amici da sostenere. Oggi non sembra vero, dopo l’ultima vergognosa ritirata del 2021 del mondo occidentale i talebani si sono ripresi il controllo del paese. L’ultimo giro di vite: il regime che fa della segregazione delle donne il proprio simbolo di forza ha reintrodotto la lapidazione per adulterio. La famiglia di Rabia è già stata più che ragionevole. Per tutte le altre figlie del suo clan non ci sono stati bivi dove scegliere o decisioni da prendere. “Tutte le donne di casa mia si sono sposate prestissimo. Ma io non volevo. Non voglio”. Sorride e alza lo sguardo verso l’alto, come imbarazzata. Come se fosse una colpa. Lo sport più che un ascensore sociale diventa allora un razzo da abbracciare stretto per spararti in un’altra dimensione.


Campedelli allena queste sedici ragazze tra i 17 e i 28 anni da poco più di un mese, ma è arrivata da Trento con obiettivi già altissimi. Il primo è dietro l’angolo, fissato per il  2025, e bisogna lavorare. La Federazione internazionale di volleyball ha ammesso per la prima volta la Nazionale pakistana, ma per incoraggiare gli sforzi del paese ha fatto di più, proponendo di assegnare la manifestazione a Islamabad. Sarebbe un passo decisivo per lo sport femminile in uno stato che fa ancora così fatica a concedere opportunità alle donne, dove esiste ancora un doppio sistema legale, quello civile e quello che si rifà alla legge islamica. La costituzione riconosce infatti l’uguaglianza tra uomini e donne, e l’articolo 25 afferma che non esiste discriminazione sulla base del sesso, ma riconosce anche la validità della legislazione religiosa della sharia. Malala ha pagato sulla sua pelle il coraggio di parlare. 
 
La bambina simbolo contro i fondamentalisti, la più giovane vincitrice del premio Nobel per la pace, è diventata famosa a tredici anni scrivendo e denunciando gli abusi contro il genere femminile. Nel suo blog scritto per la Bbc documentava le violenze dei talebani pakistani contrari ai diritti delle donne e al diritto all’istruzione per le bambine. Il Pakistan rimane attualmente uno dei paesi più pericolosi del mondo per la sicurezza delle donne. Il Gender Inequality Index per il 2014 lo ha fissato alla centoventunesima posizione su 157 paesi, e nel 2016 è risultato penultimo nel Global Gender Gap Report. I numeri sono lo specchio di un mondo diviso che procede a due velocità. I passi verso il miglioramento arrancano in un melmoso substrato culturale. A novembre del 2016 è stato abolito il delitto d’onore, anche se molte donne sono ancora uccise o picchiate dai loro familiari. È successo così anche a Novellara, nella bassa di Reggio Emilia: la condanna a morte per Saman Abbas, che testardamente rifiutava un matrimonio forzato, è stata emessa dal padre e dai maschi del suo clan e perfino la madre non è riuscita a stare dalla sua parte.
  
“Quando ho accettato l’incarico sapevo che sarebbe stata una sfida complessa ma non pensavo di trovare così tante difficoltà”. Il paragone con l’Iran viene naturale. “Là le bambine iniziano a fare sport nelle scuole, qui invece non è previsto per loro. Le femmine fanno molto meno in tutte le materie e si pensa che non abbiano bisogno di muoversi. Destinate a stare ferme in ogni senso”. Le famiglie non approvano, al massimo chiudono un occhio, come una concessione che però può sempre essere revocata. “Allenare delle ragazze che iniziano a fare sport in età avanzata è sicuramente più complesso, per questo ci stiamo muovendo per cercare nuove leve negli orfanotrofi, dove non c’è pressione famigliare ”. Rabia è l’unica nella sua famiglia che ha potuto studiare. “Sono la sola che sta tentando una carriera nello sport”. La guarderanno come un alieno. E’ tra le poche atlete della Nazionale a saper parlare inglese, succhiato come nettare alle scuole del villaggio d’origine, ogni lezione sempre al primo banco, per non perdere pezzi di un tesoro che si presenta come l’occasione della vita, leggendo e rileggendo quell’unico libro in lingua originale con le pagine ingiallite e consumate. Trampolini per un lancio su cui non scommetterebbe nessuno. “Entrare in contatto con loro è ancora più difficile se non hai una lingua con cui comunicare. Non conosce l’inglese neppure Nasreen, l’assistente alla squadra, dipendente della Federazione con il compito di aiutarmi al di fuori della palestra, per prenotare le sale per le mie riunioni tecniche con la squadra o di aiutare le ragazze. Non è un’allenatrice, non c’entra nulla con lo sport, è evidente, ma non è nemmeno una team manager. Qui la chiamano tutti Madam; ho provato a insegnarle come si usa il traduttore dall’urdu all’inglese ma niente da fare”. 

Rischiare la pelle non è solo un modo di dire. Qui in Pakistan coniugare lo sport all’essere donna vuol dire potersi fare davvero male. Colpa degli spilli che bisogna usare per fissare il velo alla testa e al resto del corpo. Prima di ogni allenamento le ragazze si appuntano gli spilli in modo che siano il meno sporgenti possibile ma è chiaro che non è una garanzia. “In Iran almeno questo problema non c’era. Qui l’arretratezza è tangibile. In tutto il Pakistan non esiste un solo produttore di hijab sportivi. In Iran le atlete possono indossare un abbigliamento professionale, coprente ma fatto di un tessuto specifico. Qui no. Le atlete non hanno indumenti traspiranti e in questi abiti ci sudano dentro, e quel che è peggio devono appuntare il tessuto con gli spilli. È chiaramente molto pericoloso. Per le ragazze e per le compagne, una pallonata in testa rischia di diventare un incidente serio, per non parlare di quando ci si scontra”. Trovare soluzioni è diventato il cruccio di Alessandra che si è già messa in contatto con un’azienda italiana specializzata in hijab tecnici per sportive. “Ne manderanno una decina entro pochi giorni, tutti gratuiti”. Sembra un’impresa più grande di lei e in effetti è così, ma a questo punto tanto vale sognare in grande. “Ho un grande progetto per loro e sto facendo di tutto perché si realizzi: a giugno voglio portarle in Italia, sto attivando sponsor e raccolte benefiche, voglio far vedere loro un campo con i pali ben piantati a terra, sicuri. Qui giochiamo con una rete che  anche il più scombinato degli oratori di paese avrebbe scartato”.

La coach guarda avanti perché guardare indietro non fa per lei; l’esperienza iraniana è ancora una ferita troppo fresca per poterne parlare con distacco. La paura si è materializzata con un invito del presidente Ebrahim Raisi fissato per il 16 novembre in Parlamento. Fuori le proteste stavano sconvolgendo il paese dopo che a settembre Masha Amini, la giovane di ventidue anni, era stata picchiata a morte dalla polizia morale per il velo che lasciava scoperta una ciocca di capelli. “Noi all’interno del centro sportivo eravamo come in una bolla. Nessuno parlava, sono venuta a sapere degli scontri e delle violenze del regime dall’Italia, e la federazione negava ciò che stava accadendo, i giornali che entravano erano solo in arabo e i telegiornali in persiano, il governo aveva bloccato internet per impedire ai manifestanti di organizzarsi. La paura peggiore delle ragazze della squadra era però venire strumentalizzate dal regime, apparire complici del governo e rischiare la gogna da parte della popolazione. Quel giorno dal presidente avremmo dovuto leggere una lettera scritta dalla federazione dedicata a lui; proprio lui che in quei giorni aveva mandato a morte decine di ragazzi. Solo sei delle quattordici ragazze della squadra  si sono presentate al pullman quella mattina. Le altre erano fuggite e da allora non le ho più riviste. Ho deciso che non avremmo letto alcuna lettera, mi sono fatta coraggio e mi sono preparata all’incontro con una spilla nera in segno di protesta, ma la sensazione di impotenza e frustrazione è stata enorme. È stata un’esperienza surreale. La squadra era distrutta. Ho capito che era come combattere contro i mulini a vento. Sono tornata in Italia con un peso enorme nel cuore”.
 
È l’ora dell’Iftar, il pasto dopo il tramonto che segna la fine del digiuno durante il Ramadan. In Iran le atlete sono esentate, in Pakistan invece le ragazze digiunano. “E allora gli allenamenti li facciamo di notte. Si allenano tra le 16 e le 18 poco prima del pasto della sera e riprendiamo dopo, fino alle due di notte. Me lo hanno proposto le ragazze stesse”. Fuori è tutto buio, ma c’è luce al centro sportivo. Un compromesso ancora sul corpo delle donne.

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