ciclismo
Cyrus Monk e i derelitti della Parigi-Roubaix
La corsa velocissima di Mathieu van der Poel e quella infinita del corridore australiano e di tutti quelli che sono arrivati oltre il tempo massimo: perché una Roubaix è qualcosa di magnifico e va finita
Chi ieri era al velodromo di Roubaix o si è posizionato lungo uno dei ventinove settori, e 55,7 chilometri, di pavé della Parigi-Roubaix ha potuto vedere come la Parigi-Roubaix non sia una corsa, ma tante corse. E come le pietre siano in realtà capaci di trasformare chi pedala ben più di qualsiasi montagna. Se la salita è capace di dilatare il tempo e lo spazio tra i più forti e i meno forti, il pavé riesce anche a mutare la fisionomia, la forma e la dinamica del movimento di chi sulle pietre pedala.
La Parigi-Roubaix di Mathieu van der Poel è durata cinque ore, venticinque minuti e cinquantotto secondi, la più veloce della storia. Quella di Jasper Philipsen, Mads Pedersen e Nils Politt tre minuti in più. Per molti la Parigi-Roubaix è stata la stessa corsa: gli stessi chilometri, parecchi minuti in più per concluderla, ma comunque lo stesso orizzonte verso il quale tendere, quello che si staglia davanti, lo stesso dei primi, quello che punta a Roubaix.
Per molti invece la Parigi-Roubaix è stata una corsa ribaltata, nella quale l’orizzonte s’era capovolto, non era un qualcosa da raggiungere, ma qualcosa da cui cercare di fuggire. Corridori diventati preda e non cacciatori, in fuga da un tempo massimo che li inseguiva, li braccava. E li superava, abbandonandoli alla consapevolezza dell’inutilità della pedalata, alla scomparsa che si materializzava in quel OTL – outside time limit – che vuol dire cancellazione del loro nome dall’ordine d’arrivo ufficiale.
Eppure nessuno potrà mai cancellarli. Perché chi c’era ieri al velodromo di Roubaix, o si era posizionato lungo uno dei ventinove settori, e 55,7 chilometri, di pavé della Parigi-Roubaix, e ha avuto la decenza, per loro stessi sia chiaro, di applaudire tutti, sino al passaggio delle voiture-balai, l’auto che chiude la corsa, ha visto quei corridori ostinarsi a pedalare non per vincersi o ottenere un buon piazzamento, ma solo perché la Parigi-Roubaix è più di una corsa, è qualcosa a cui ambire e, proprio per questo, va onorata finendola.
C’è chi alla Parigi-Roubaix va per vincerla, chi per aiutare i capitani a vincerla, chi per cercare di fare il meglio possibile, e sono la maggioranza, chi perché obbligato dalla squadra e chi perché correre la Parigi-Roubaix è un sogno, qualcosa che nella vita, se si sceglie di fare il corridore, si deve per forza fare.
È andata così per Kelland O’Brien, la cui fuga dal tempo massimo è riuscita per un pelo. È andata così – e in ordine di arrivo – a Cameron Scott, Mathijs Paasschens, Oscar Riesebeek, Daniel Mclay, Riley Pickrell, Tim Naberman, Andrew August, Manlio Moro, Armund Grondhal Jansen, Milan Freitin, Niklas Märkl, Emil Herzog, Anders Foldager, Alexis Renard, Blake Quick, Jardi Christiaan van der Lee, Victor Vercouillie, arrivati in ordine sparso, più o meno in gruppetti, poco o molto oltre il tempo massimo.
È andata così anche e soprattutto a Cyrus Monk, arrivato quarantotto minuti e diciotto secondi dopo Mathieu van der Poel, dopo oltre centosessanta chilometri inseguito solo dalla voiture-balai, la grandissima parte di questi in perfetta solitudine, abbandonato a se stesso da tutto, pure dal conforto di un’ammiraglia.
Ha raccontato Cyrus Monk di aver forato nel corso del primo settore di pavé, quello da Troisvilles a Inchy, di aver faticato per ritornare in gruppo e poi di aver bucato due volte lungo la Foresta di Arenberg. Da lì, sono iniziati una novantina di perfetta solitudine, con l’unica certezza che quella corsa la doveva per forza finire perché chissà se ne avrebbe corsa un’altra.
“Penso che la Parigi-Roubaix sia The Hunger Games. Tutti a casa vogliono solo vederci soffrire. Ogni settore è come un cannone che esplode un colpo e qualcuno viene ucciso. Per me quello era il primo settore e dopo c'erano altri 28 settori dell'inferno”, ha detto dopo l’arrivo. Eppure è un inferno stupendo, un inferno unico che non esiste altrove. E forse per fortuna.
Nel 1997 il francese Frédéric Guesdon dopo aver vinto, abbastanza inaspettatamente, la Parigi-Roubaix, si fermò a parlare con il lituano della U.S. Postal Service Remigijus Lupeikis, ultimo arrivato quel giorno a oltre quaranta minuti da lui. Lo abbracciò e lo ringraziò di essere arrivato, perché la sua ostinazione, la sua voglia di concludere la corsa dava prestigio alla sofferenza di tutti e non solo alla sua vittoria. Frédéric Guesdon era, è, un innamorato della Parigi-Roubaix, la considerava più di una corsa, il giorno più bello dell’anno: “Una corsa che è un insulto alla dignità del corridore, proprio per questo magnifica, più corsa delle altre, un giorno speciale”. Alla sua prima Parigi-Roubaix era caduto, sentiva male ovunque, ma l’aveva voluta finire: finì ottantaseiesimo a oltre mezz’ora di ritardo dal vincitore Franco Ballerini.
Ogni anno tutto questo si ripete, ci si chiami Cyrus Monk e si venga dall’Australia o Evaldas Šiškevičius, si provenga dalla Lituania e ci si debba far aprire il cancello del velodromo da qualcuno perché la corsa era finita da troppo tempo e si è stati superati pure dalla voiture-balai.