Champion Cities
Paris Saint-Germain-Barcellona, o della faccia cubista di Luis Enrique
Cosa accomuna Picasso all'allenatore del Psg? Il viaggio da Barcellona a Parigi e i periodi colorati delle loro esistenze. Oggi i quarti di Champions League mettono di fronte il passato e il presente del tecnico catalano
Quando Pablo Picasso arrivò per la prima volta a Parigi non aveva ancora diciannove anni. Aveva lasciato Barcellona dove a Els Quatre Gats, la taverna modernista di Casa Martì, aperta tre anni prima, non si faceva altro che decantare l’irresistibile fascino e un po’ proibito della Ville Lumière. Picasso, insieme all’amico poeta e pittore Carlos Casagemas, giunse a fine settembre a la Gare d’Orsay e nel giro di pochi giorni si fece incantare dalla bohème di Montmartre: atelier, gallerie, le grandi mostre retrospettive al Louvre – Delacroix, Courbet… - cabaret e giovani donne disponibili a fare da modelle e molto altro. Protetto dalle larghe tese di un feltro da moschettiere e armato di cavalletto, tavolozza e colori, Picasso pensava di conquistare Parigi. Non era forse già un promettente pittore, dal momento che una sua opera era addirittura esposta al Padiglione spagnolo dell’Esposizione universale inaugurata in primavera?
Le cose andarono diversamente: e da Parigi, Picasso fu conquistato. Dovette tornare precipitosamente in Spagna, a dicembre, prima a Barcellona e poi a Malaga. L’amico Casagemas si era messo nei guai con una ballerina, Germaine Gargallo – in seguito nota anche col nome da sposata: Pichot – una delle modelle più richieste dai pittori Montmartre: Carlos l’amava perdutamente non riamato. Picasso riaccompagnò l’amico a casa, ma nulla poté fare quando, il 17 febbraio 1901, Carlos, tornato a Parigi, e vedendosi respinto di nuovo da Germaine, al Café de l’Hyppodrome, tentò invano di ucciderla con un colpo di pistola. Quindi rivolse l’arma contro la sua tempia e sparò. Anni dopo, Picasso dichiarò che, con la morte dell’amico, ritratta in un quadro ora conservato al Museo Picasso di Parigi (Morte di Casagemas), aveva avuto inizio il “periodo blu” della sua pittura, caratterizzato da un sentimento cromatico di cupa malinconia.
Dovranno passare almeno tre anni prima che, nel 1904, gli umori e le atmosfere delle sue opere, dopo un frenetico pendolarismo con Barcellona, avendo trovato stabilmente a Parigi la loro esatta collocazione esistenziale ed artistica, si aprissero al successivo periodo ispirativo, quello rosa, più luminoso e spensierato. Il cubismo invece doveva aspettare ancora un poco, il 1907, anno in cui Picasso termina – o perlomeno lascia volutamente incompiuto – il quadro dapprima intitolato El Burdel de Aviñón e poi, solo nel 1916, Les demoiselle d’Avignon.
Ho sempre pensato che Luis Enrique avesse una faccia cubista. Lo pensavo anche prima che la proditoria gomitata di Mauro Tassotti, al Foxboro Stadium di Boston nel quarto di finale dei Mondiali Usa del 1994, tra Italia e Spagna, rischiasse di alterarne per sempre la fisionomia. Una faccia cubista perché penso che sia tra le non molte figure poco o nulla convenzionali del mondo del football contemporaneo. Asturiano di nascita, consacrato affermato campione nel centrocampo del Real Madrid dei primi anni Novanta, Luis Enrique ha però legato la sua carriera prima in campo (1996-2004) e poi in panchina (2008-11, come allenatore della squadra B e poi 2014-17, della prima squadra) al periodo blau-grana del Barcellona con cui ha vinto, complessivamente, 4 campionati della Liga, 5 Coppe di Spagna, 2 Supercoppa di Spagna, 1 Champions League, 1 Coppa delle Coppe, 2 Supercoppe Uefa, 1 Mondiale per club. Trascurabile il suo periodo giallorosso sulla panchina della Roma (2011-12). Più intenso, anche se poco fortunato, il furibondo periodo rosso alla guida della Nazionale spagnola (2018-22), segnato dalla luttuosa interruzione di cinque mesi (estate-autunno 2019) causata dalla morte delle giovane figlia Xana, a soli nove anni. Dal luglio 2023 è partito, come un altro barcelonista di elezione, alla conquista di Parigi, prendendo la guida del Paris Saint-Germain, da oltre un decennio alimentato dalle infinite risorse economiche della proprietà qatariota ma inseguito, in Champions League, da una, al momento, ancora inscalfibile leggenda perdente.
Il cubista Luis Enrique questa sera al Parc des Princes prenderà per mano una squadra che nel nome ricorda la fatale modella di Picasso e la porterà a fronteggiare il suo passato blaugrana non sempre felice. E chissà che non si possa aprire un nuovo periodo estetico-agonistico per les Rouge-et-Bleu.
Il Foglio sportivo - In corpore sano