Tutti i “what if” di OJ Simpson, a partire da una Ford Bronco bianca
È morto a 76 anni l'ex campione nero di football americano. La fuga sulle autostrade di Los Angeles e il processo dell'uomo capace di vestire i panni del perfetto americano
Bisogna riandare alla notte di fine primavera di trent’anni fa e al suv Ford Bronco bianco che transita sulle autostrade di Los Angeles, sotto gli occhi di dozzine di telecamere, seguito in corteo da una squadriglia di vetture della polizia. No, non è una scorta, è il surreale inseguimento, a velocità bassissima, di uno degli uomini più famosi d’America: OJ Simpson, ex campione di football convertitosi in celebrità, habitué delle pubblicità, interprete muscolare di brutti film di cassetta e serie d’azione. OJ (sta per “Orange Juice”, succo d’arancia) è il campione nero capace di vestire i panni del perfetto americano – bello, sorridente, accondiscendente quanto basta per essere apprezzato perfino dai bianchi – mentre le cronache californiane sono fresche del caso Rodney King, ennesimo disastro di uno scenario razziale sempre inquieto. Ecco: OJ poteva incarnare un bel fattore di pacificazione, non fosse che la stella del football era stato appena accusato dell’omicidio della ex moglie, Nicole Brown Simpson, e del suo amico, il cameriere Ronald Goldman, entrambi pugnalati a morte a casa di lei. Sulla Interstate 404 al volante della Bronco c’è Al Cowlings, amico ed ex compagno di squadra di OJ, che siede al suo fianco, mentre l’avvocato Robert Kardashian (sì, il padre di Kim) legge ai media quello che ha l’aria d’essere il biglietto d’addio affidatogli da Simpson, intenzionato a farla finita. “Non dispiacetevi per me. Ho avuto una vita fantastica e ottimi amici”, scrive OJ. “Pensate al vero OJ e non a questa persona confusa. Grazie per aver reso la mia vita speciale. Pace e amore”. La surreale pagliacciata dura cento chilometri, interamente ripresa dalle reti tv, che la mandano in diretta fino all’arresto della star.
Ormai l’attenzione nazionale è deflagrata e si apre un dibattito, dalle evidenti striature razziali, destinato a viaggiare in parallelo col seguente “processo del secolo”: undici mesi di dibattimento nel quale OJ schiera il celebre dream team legale, composto dai potentissimi e disinvolti avvocati Robert Shapiro, Johnnie Cochran, Robert Kardashian e Alan Dershovitz. Lo show procede fino al 3 ottobre 1995, quando la giuria emette il verdetto di non colpevolezza, davanti a una platea televisiva di 100 milioni di americani sintonizzati su Court Tv, in quel momento l’emittente più popolare della nazione, e mentre le forze dell’ordine sono mobilitate per il timore di disordini nel caso di condanna. Invece, a dispetto dell’enorme quantità enorme di prove del dna contro Simpson presentate dai pubblici ministeri e le tracce di sangue delle vittime nella macchina e sui calzini di OJ, la difesa sfrutta una serie di errori tecnici degli investigatori per suggerire la contaminazione della scena del crimine e scardinare le evidenze.
Subito dopo l’assoluzione, però, Simpson viene citato in giudizio presso il tribunale civile dalle famiglie delle vittime e nel 1997 è riconosciuto colpevole e condannato a risarcire 33 milioni di dollari di cui non dispone, con conseguente bancarotta e una nuova pletora di guai legali. Dieci anni più tardi, nel 2005, Simpson viene arrestato a Las Vegas, con l’accusa di furto di memorabilia sportivi originariamente appartenuti a lui stesso e, in quello che ha l’aria d’essere un regolamento di conti a scoppio ritardato a opera della giustizia americana, si vede infliggere una pesantissima condanna a 33 anni. Ne sconta dieci dietro le sbarre, durante i quali opera minuziosamente all’edificazione di una delle più sbalorditive mitologie della cultura popolare americana, quella del “What if?” – del “vero o falso?”, potremmo dire noi – in cui lui stesso, in sede editoriale e televisiva, gioca, instancabilmente e con sottigliezza, a rimpiattino con la verità: sono stato io a compiere quei delitti o è tutto un inganno? Mi hanno rimesso in catene come l’uomo nero che fa paura, dopo che l’industria dello spettacolo e il mio talento m’avevano miracolato?
OJ Simpson è morto di cancro a 76 anni, ancora circondato da un’attenzione grande come i misteri che ha saputo magistralmente manipolare, confermando l’immutabile supremazia del parametro della popolarità perfino sui valori etici di una personalità. Non che questa sia una sorpresa, se si pensa alla biografia del principale favorito nella corsa alla Casa Bianca, in programma oltreoceano nel prossimo novembre.