Il Foglio sportivo
Ancelotti e Guardiola, allenatori che fanno la differenza
L’ennesima lezione del tecnico del Real Madrid e di quello del Manchester City che continuano a cambiare il calcio
Neanche alle prese con uno spettacolo d’arte varia come Real Madrid-Manchester City si è arrivati a una valutazione unanime: il calcio è per sua natura divisivo e per questo c’è chi è uscito con gli occhi pieni dalla notte del Bernabeu e chi invece non ha fatto altro che rimarcare le pecche, gli errori difensivi, le distrazioni. A Bologna li chiamano i “maigoduti”: a forza di cercarlo, il pelo nell’uovo lo si trova sempre. Eppure, in quei 90 e passa minuti giocati a mille all’ora martedì sera, abbiamo visto di tutto: tre esecuzioni balistiche impeccabili (Foden, Gvardiol, Valverde), un’accelerazione di Rodrygo che ha ricordato il miglior Verstappen, la soluzione luciferina di Bernardo Silva che sfrutta l’indecisione di Lunin. Paradossalmente, a risultare fuori posto sono stati i due più attesi: un nervoso Bellingham e un impacciato Haaland.
Per il terzo anno consecutivo, Carlo Ancelotti e Pep Guardiola hanno incrociato le armi in anticipo rispetto alla finale: anche stavolta, la sfida è stata all’altezza delle gigantesche aspettative. Mentre dalle nostre parti c’è chi si affanna a sminuire l’impatto degli allenatori sulle squadre, Ancelotti e Guardiola, da decenni, vanno in direzione ostinata e contraria. Lo fanno con idee non necessariamente affini, con approcci diversi: più malleabile e alleato dei calciatori il primo, sempre permeato da un’allure da scienziato pazzo il secondo, capace di affrontare una partita di questo livello e frenesia con la serenità di non fare alcun cambio se non quello, obbligato, di Foden all’87esimo. E a prescindere da come la si pensi, se ci si senta più vicini ad Ancelotti o a Guardiola, è innegabile il peso che entrambi hanno avuto sullo sviluppo di singoli che adesso sono capaci di brillare di luce propria: dal suddetto Foden, sui nostri schermi ormai da tempo immemore eppure solamente 23enne, prodotto dell’Academy, quest’anno alle prese con la migliore stagione della sua giovane vita, a Rodrygo, strapagato da adolescente nel 2018, arrivato a Madrid soltanto un anno dopo per via dei regolamenti, quindi atteso con pazienza mentre il proscenio spettava ad altri. Poi, ovviamente, ci sono i vecchi saggi: Toni Kroos sembra pilotare le partite dall’alto, come se avesse in mano un controller capace di gestire non solo i suoi compagni ma anche gli avversari, un puparo velenoso e raffinato. La staffetta con Modric è romantica e malinconica, perché a breve non vedremo più il croato dispensare perle di calcio condensate: c’è anche il suo zampino nel gol che ha chiuso un fantascientifico 3-3, tecnica e saggezza che quasi stonano con l’epilogo brutale dell’azione, una sberla al volo di Valverde che trasuda violenza calcistica.
Ma anche in quella conclusione animalesca, non c’è nulla che non sia ponderato: i replay della caviglia rigida del Pajarito andrebbero mostrati nelle scuole calcio, così come la sua crescita, da promessa del Peñarol a giocatore totale agli ordini di Ancelotti, che due anni fa gli disse chiaro e tondo “quest’anno o segni dieci gol, o smetto di allenare”. Se Carletto è ancora sulla panchina del Bernabeu, è anche perché Valverde ne ha segnati dodici tra Liga, Champions League e Mondiale per club.
Con un’intelligenza fuori dal comune, Ancelotti continua a evolversi, rimanendo sulla cresta dell’onda come un novello Ferguson: quasi trent’anni fa aveva iniziato il suo cammino provando a ricalcare le orme tracciate da Sacchi, l’ultimo maestro incontrato sulla strada. Nel nome del dogma sacchiano si era scontrato con Zola e aveva rinunciato a Baggio: a pensarci oggi, sembra un’eresia. Ancelotti si adatta ai suoi giocatori, parte dal materiale umano per costruire le sue squadre, è capace di invenzioni folgoranti – la posizione ibrida di Bellingham è solo l’ultima della sua carriera – e di farsi volere bene da giocatori che potrebbero essere suoi nipoti in termini anagrafici. Ma anche Guardiola, che a queste latitudini continua a essere erroneamente indicato, in maniera sciatta e semplicistica, come l’uomo del tiki-taka, è alla sua seconda o terza incarnazione da allenatore. I detrattori obiettano che con i campioni è tutto più facile, che i milioni spesi sul mercato fanno la felicità, ma la sua continuità ad alti livelli ha dell’impressionante. Proprio per la tendenza a volere sempre il meglio da lui, adesso c’è chi gli imputa la crisi realizzativa di Haaland, soltanto tre gol tra marzo e l’inizio di aprile. Il City si è presentato a Madrid perdendo all’ultimo istante De Bruyne, eppure non ha fatto una piega: è partito in maniera ruggente, ha mandato giù a malincuore il boccone amaro di due gol figli di sfortunate deviazioni (e, a onor del vero, di una lettura difensiva errata che ha consentito la fuga in campo aperto di Rodrygo), quindi ha proseguito come se nulla fosse, seguendo il piano partita, senza affannarsi in cambi forzati di uomini o di sistema. A rassicurare i campioni d’Europa c’è poi l’assenza dell’ormai lungodegente Courtois, che negli ultimi scontri tra City e Real era stato protagonista di prestazioni ai limiti del paranormale: decisamente più umano, invece, Lunin.
Ancelotti e Guardiola non si sono negati un pizzico di polemica: chi se l’è presa timidamente con l’arbitro, chi meno timidamente ha invece accusato il terreno di gioco del Bernabeu, così poco all’altezza della fama e del blasone madridista da far pensare che fosse uno stratagemma. Il 3-3 finale ci regalerà altri 90 minuti (o 120) di tensione spasmodica, grandi giocate, intuizioni folgoranti. E se c’è qualcuno che al triplice fischio non ha sussurrato “peccato che sia già finita”, non siamo sicuri di volerlo conoscere.