Il Foglio sportivo
La serenità assoluta di Mathieu van der Poel
Il campione olandese può fare la storia del ciclismo alla Liegi-Bastogne-Liegi unendo pietre e côtes
Dicono, e pure con una certa sicurezza – quella che si ha quando i dati supportano una tesi –, che Francia e Belgio siano due mondi distantissimi, talmente distanti che sembra impossibile che siano confinanti. Aggiungono, e anche in questo caso con una certa sicurezza, che pavé e côtes siano mondi ancor più lontani di Francia e Belgio e che non ci sia nemmeno possibilità di dialogo tra le pietre della Parigi-Roubaix e le salite della Liegi-Bastogne-Liegi.
Se riuscire a unire due mondi diversissimi in una carriera è qualcosa di difficile, ma possibile, a patto di modificare – dicono – preparazione e obbiettivi, chiedendo magari un aiuto alla buona sorte, farlo in poche settimane è missione pressoché improbabile. Impossibile no, ci sono riusciti Rik van Looy nel 1961 ed Eddy Merckx nel 1973. Il primo però è stato uno dei più forti corridori nelle corse di un giorno, il secondo il più forte di tutti.
Mathieu van der Poel alla storia non ci pensa, o almeno dice di non pensarci. Non è tipo da badare a queste cose, in lui non c’è l’ossessione della vittoria, figurarsi quella di voler essere ricordato come uno dei corridori più forti di tutti i tempi. Chi gli è stato vicino in questi anni – è lì da quando l’Alpecin-Deceuninck si chiamava ancora BKCP-Corendon e pedalava ben lontana dal World Tour, la serie A del ciclismo mondiale – ha detto al Foglio sportivo che “mi ha sempre impressionato la sua serenità. Una serenità assoluta, che si può scambiare per menefreghismo forse, ma che menefreghismo non è. È la serenità di chi è consapevole di stare facendo quello che vuole fare ed è felice per questo. È la serenità di chi sa che l’unica cosa veramente importante è godersi appieno questi momenti perché solo se si è tranquilli i risultati arrivano”. Certo questo è l’atteggiamento giusto solo a patto di essere forte, molto forte, tra i più forti, forse il più forte.
Domenica scorsa, al termine di un’Amstel Gold Race corsa nel gruppo, non davanti al gruppo come gli è capitato di fare spesso, volentieri e soprattutto ovunque in questi anni, Mathieu van der Poel, con la sua solita e assoluta serenità ha detto: “Sono abbastanza realista da capire che non è possibile vincere tutto e farlo ogni settimana. Come squadra abbiamo lavorato bene e io semplicemente non avevo buone gambe”. Può capitare.
Non era la sua corsa quella corsa, o meglio non lo era l’Amstel Gold Race edizione 2024. I suoi pensieri erano altrove, avevano già preso residenza a Liegi e a quella sfida contro Tadej Pogacar che può sembrare improba, almeno alla Liegi, ma che improba non è.
Ha detto Mathieu van der Poel che “le corse che mi si addicono di più sono finite e come squadra abbiamo fatto un ottimo lavoro. Senza dubbio è già stata una stagione fantastica per noi e poi a Liegi ci sarà un certo Pogacar”.
Mathieu van der Poel sa che Tadej Pogacar è uno della sua stirpe. Non quella franco-olandese che ha unito Raymond Poulidor ad Adrie van der Poel, ma quella dei corridori forti forti, di quelli che si possono permettere di sfoderare un’assoluta serenità, di pensare solo a divertirsi su di una bicicletta perché tanto i risultati arriveranno lo stesso. E sa anche che mentre lui domava il pavé fiammingo e francese, vincendo Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix, lo sloveno si preparava nel miglior modo possibile per la Liegi-Bastogne-Liegi, per il Giro d’Italia e il Tour de France alla ricerca anche lui di un anno perfetto, ossia quello nel quale unire la Classica monumento più adatta agli scalatori con le due corse a tappe più antiche e prestigiose.
Mathieu van der Poel è a conoscenza di tutto questo. Gliene importa il giusto. Sa che domani dovrà correre la Liegi-Bastogne-Liegi e che sarà una bella giornata di pedalate. Perché quando si pedala la Liegi-Bastogne-Liegi non può che essere una bella giornata di pedalate. Certo è fatica, ma chi sceglie di pedalare sa a cosa va incontro e, in un modo o nell’altro, lo accetta e gli piace.
Sa anche a cosa va incontro correndo la Liegi-Bastogne-Liegi. È consapevole che non sia la sua corsa, sempre che esistano davvero corse che non siano adatte a Mathieu van der Poel: quando la corse nel 2020 terminò al sesto posto.
Quello di questi anni è un ciclismo forse estremo e scientifico per preparazione, alimentazione e tecnologia. È un ciclismo ipermoderno, ma che porta con sé un dogma antico, pionieristico, quello, molto libertario, che suggerisce che l’unica specializzazione possibile è quella del tutto.
Perché in fondo si è solo uomini in bicicletta e che si sia in pianura, in salita, sulle pietre ciò che permette il moto non cambia. Serve pedalare, pedalare il più forte e il più a lungo possibile.
E per Mathieu van der Poel questo dogma è l’unico valido, l’unico che può e vuole seguire. Correre ovunque e su qualunque mezzo a pedali. Perché non esistono differenze tra una bicicletta da corsa, una da ciclocross, una gravel o una mountain bike. Sono tutte biciclette, hanno due pedali, due pedivelle, due ruote e una catena che unisce la guarnitura a quella posteriore. E in tutti i casi servono due gambe per muoversi.