Stefano Pioli - foto via Getty Images

Il Foglio sportivo

Perché Stefano Pioli sta perdendo il suo Milan

Giuseppe Pastore

Il risultato del derby scudetto non cambierebbe il futuro. A Ibrahimovic piace Thiago Motta

La partita di giovedì sera, Daniele De Rossi l’aveva già vista. E anche quella volta aveva recitato un ruolo da protagonista in panchina: la sera del 13 novembre 2017, Italia-Svezia 0-0, l’autunno del nostro sprofondo, quando paonazzo se l’era presa col ct Ventura incapace di svoltare tatticamente una partita incartata, mentre Candreva e Darmian centravano regolarmente le nuche e le tibie dei lunghi difensori scandinavi. Per sua fortuna, DDR non ha dovuto farsi il sangue amaro anche con Roma-Milan: questo dubbio privilegio è toccato ai milanisti, prima sconcertati e poi avviliti da un piano-gara che dal 40esimo ha previsto un assalto cieco a colpi di palloni crossati e sparati alla luna oppure finiti regolarmente in bocca a Smalling e Mancini. Il primo colpevole del tracollo ha già fatto capire che a fine stagione lascerà la panchina del Milan; dunque, mentre sui rossoneri si allunga l’ombra di un derby mai così inutile e per questo ad altissimo rischio di ulteriori mortificazioni, è già tempo di provare a immaginare cosa ci sarà oltre Stefano Pioli.

Cosa ha sbagliato Pioli

Il doppio confronto con la Roma è stato all’insegna di due chiavi: la drammatica inferiorità tecnica e numerica del Milan a centrocampo e la regolare mancanza di personalità di big vecchi e nuovi, spesso incensati oltre ogni prudenza. Theo Hernandez ha nuovamente fallito una grande partita, triste consuetudine che lo accompagna da parecchi derby; né Pulisic né Loftus-Cheek, i migliori tra i nuovi acquisti, hanno concluso alcunché. Un capitolo a parte lo merita l’ondivago Rafa Leão, che pure giovedì è l’unico che ha messo qualcosa a referto (un assist e un’espulsione procurata). Sbaglia di grosso chi vuole investirlo a tutti i costi dell’aura del leader, perché è Leão il primo a rifiutare quest’etichetta: semplicemente non capisce il concetto di responsabilità applicata a un’attività che lui considera soprattutto un divertimento molto ben pagato, e fugge a gambe levate dalle ambizioni un po’ novecentesche di un ambiente che lo invita a tirare fuori “gli attributi” (eufemismo), come se fosse qualcosa che si può fare a comando. I milanisti si mettano l’anima in pace: Leão non sarà mai un trascinatore tecnico alla Mbappé o un giovane capo carismatico alla Bellingham, e gli si farebbe un gran favore a mettergli accanto giocatori in grado di parlare la sua stessa lingua, per sgravarlo un po’ dal peso di dover essere speciale tutti i giorni.
 

Qui ha sbagliato Pioli: troppe volte il Milan ha dichiarato la propria Leão-dipendenza, anche perché il mercato – molto strombazzato – ha disegnato una rosa affascinante ma ricca di vuoti, a cominciare dalla prima punta in cui Jovic non ha assolutamente lo status per far rifiatare ogni tanto l’esausto Giroud. Anche per colpa del suo allenatore, il Milan-ciambella – la squadra con il buco in mezzo – ha affrontato la stagione con un centrocampo sempre più sguarnito: il reparto dello scudetto è stato smantellato (Tonali, Kessié, Krunic) oppure, come nel caso del fondamentale Bennacer, si trascina problemi fisici ancora irrisolti. Sparito dai radar Kalulu, fuori a lungo anche Tomori, la difesa non ha avuto il passo e l’aggressività per proteggere un reparto inesistente, che spesso ha lasciato praterie di 40 metri in cui ha pasteggiato chiunque, dall’Inter al Monza, dal Paris Saint-Germain al Sassuolo. A un certo punto è sembrato che la soluzione potesse essere il piedidolci Adli: peggio mi sento. Un equivoco evidente già da ottobre a cui nessuno ha posto rimedio: né la società che non ha voluto intervenire sul mercato a gennaio, né l’allenatore che si è trascinato gli stessi problemi fino ad aprile, fino a schierare nella serata più importante l’improvvisato duo dinamico Bennacer-Musah, zero presenze da titolari insieme fin qui.

Cosa non deve sbagliare il Milan

Lasciando il Milan 2023-24 al suo destino, che purtroppo per lui rischia di trasformarsi già lunedì sera in una Walk of Shame stile Cersei Lannister, la società – immaginiamo – sarà già al lavoro per strutturare un futuro diverso, migliore, soprattutto più equilibrato. E partirà da un nuovo allenatore. Il pueblo dei social vorrebbe Antonio Conte, che però per tutta una serie di motivi ci sembra lontano mille miglia dal Milan attuale: troppo costoso, troppo esigente in sede di mercato, troppo lontano dall’essenza di molti giocatori (per i motivi di cui sopra, ve lo immaginate con Leão?), si porta dietro un passato ingombrante di cui lui stesso sembra la prima vittima. Il dirigente designato all’ultima parola è Zlatan Ibrahimovic, che coltiva solidi rapporti con Thiago Motta, con cui ha giocato insieme a Parigi: naturale che sia lui la prima scelta, anche se Thiago è in discorsi avanzati con la Juventus, anche lei tremendamente bisognosa di aprire le finestre.
 

L’italo-brasiliano sarebbe perfetto sotto ogni punto di vista: a Bologna ha ridato entusiasmo a una piazza di palato fino che non respirava l’Europa da vent’anni, ha valorizzato (anche economicamente) una rosa intera, ha fatto emergere potenzialità inesplorate in tanti giocatori a cominciare da Zirkzee. Più in generale Thiago Motta, malgrado il passato da eroe del Triplete interista, emana quel carisma e quell’ambizione che un allenatore del Milan dovrebbe possedere di default. Ma le idee e le volontà dei dirigenti “minori” (soprattutto Moncada) rimangono un grosso punto interrogativo.
 

Non ci stupiremmo se alla fine la scelta cadesse su un manager straniero al momento ancora sotto traccia, con tutto il carico di ulteriori incognite di una scelta che porrebbe il Milan in direzione sempre più ostinata e contraria al modello vincente di queste ultime stagioni: allenatori italiani, dirigenti pragmatici e “influenti” alla Marotta, giocatori che hanno bisogno di poco apprendistato per essere già funzionali a stagioni da 90-95 punti come le ultime due di Napoli e Inter. Perché poi, grattata la vernice, la Grande Domanda che assilla i tifosi è solo una: ma questo Milan del futuro, risanati i conti e messi alle spalle gli anni terribili della “banter era”, vorrà davvero vincere o si limiterà a rimanere un magnifico piazzato?

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