Il Foglio sportivo
Roberto Baggio racconta i suoi dieci anni senza toccare palla
"Il calcio mi dava gioia e felicità, ma oggi riesco a essere felice anche con le piccole cose e la semplicità". Parla il Divin Codino
Dieci anni senza toccare un pallone. Sembra impossibile, ma è proprio così. Roberto Baggio non aveva fatto bene i conti e quando glielo facciamo notare butta lì un “Mamma mia” che è tutto un programma. Lui che pagherebbe per tornare a giocare, altro che andare a riempirsi le tasche in Arabia, realmente non ha più toccato palla da quella volta. Neppure per gioco. Neppure un tiro in giardino. “L’ultima volta è stata davvero alla partita per il Papa a Roma… c’era anche Maradona”. Era il primo settembre 2014. Una vita fa. “Mi ero allenato tre mesi per giocare quella partita. Andavo apposta a Bologna per tenermi in forma tre volte alla settimana. Poi, alla fine dell’ultimo allenamento, il venerdì sera, ho voluto provare a tirare qualche punizione… e tac… alla terza mi sono fatto male al muscolo. Uno strappo. La partita era il lunedì, sono andato a Roma che quasi non riuscivo a camminare, però ho giocato un tempo, non potevo non esserci. Una sofferenza. Ma a quel punto ho capito che era arrivato il momento di dire basta”. E quando Baggio decide è difficile, se non impossibile, che cambi idea. “Certo che mi è venuta voglia. Tanta. Il pallone mi dava la gioia. Ma ho capito che se mi faccio male adesso, poi diventerebbe un problema anche solo per ricominciare a camminare normalmente e pensando al male che ho passato ho detto basta”. Una sofferenza necessaria. Non come le altre volte quando il male fisico arrivava lì a tradimento, mettendo a rischio una carriera intera.
Il dolore è stato un compagno di viaggio della sua vita ancora prima che diventasse il Divin Codino, il giocatore che in Italia è andato oltre ogni bandiera anche perché ha avuto la fortuna di indossare le maglie di grandi e piccole squadre lasciando sempre il segno. Baggio è ancora quello del Vicenza e non solo quello di Juventus, Inter o Milan. Ma è anche quello di Firenze, Bologna e Brescia. Ma soprattutto è quello con la maglia azzurra. Numero 10 con una treccina, anzi un codino a macchiare quei numeri. L’ha indossata tra gioie e lacrime. Come quel rigore di Pasadena che trent’anni dopo è ancora nei suoi pensieri: “Credo che in quel momento accusi il colpo – ha sempre ripetuto – ma devi anche decidere chi vuoi essere in futuro: puoi piangerti addosso per tutta la vita o puoi alzare la testa e guardare avanti per riscattarti. Quella scelta determina chi sarai in futuro. In questo senso sì, è stato un momento di crescita”. Il resto lo ha fatto la fede, il buddismo, il percorso cominciato per caso in un negozio di dischi a Firenze grazie a Maurizio Boldrini che proprio recentemente ha riabbracciato, quando era in prima fila nel giorno dell’inaugurazione di una piazza fiorentina intitolata a Daisaku Ikeda, il suo maestro. Gli ha addirittura dedicato uno dei suoi rarissimi post su Instagram, un’attività che gli segue la figlia, senza esagerare troppo: cinque post da febbraio (la prima story per Sinner di cui apprezza profondità e umiltà), dal giorno del compleanno festeggiato alla guida della sua Panda 4x4, un animale in via d’estinzione. Baggio non è tipo da fuoriserie. Delle auto lo spaventa la tecnologia, a lui basta la Pandina. Per questo fa strano ritrovarlo a Milano in piena design week, testimonial di Antera, un produttore di cerchi di lusso con una pantera come simbolo. “Dove l’istinto incontra il genio, il mito diventa leggenda” recita il claim che funziona sia per i cerchi made in Italy (anzi made in Bergamo) che per il fenomeno made in Caldogno. “Non penso che manchi il talento, ma da solo non basta. Servono passione, lavoro. Anzi, senza questi diventa tutto più difficile. Invece, se uno ha passione e dedizione può arrivare comunque in alto”. Questione di feeling cantava qualcuno. C’è da crederci perché per avere Baggio non bastano i denari. Ci vuole un’idea. Un progetto che lo convinca a lasciare la sua campagna, come quando Ita gli dedicò un aereo e lo portò in Argentina, la sua casa adottiva, il posto dove gli sarebbe piaciuto vestire la maglia del Boca.
Giocare a pallone gli piaceva come nient’altro al mondo. Altro che sparare alle anatre, “mi riempiva di felicità. Ma devo accettare di non poterlo fare più, devo mettermi via quella felicità e pensare che oggi posso raggiungerla in un altro modo. La vita ti dà tante cose, l’importante è che tu le sappia cogliere con la semplicità, perché a volte sembra che se non facciamo qualcosa di incredibile non si riesce a essere soddisfatti. Invece la felicità si può raggiungere anche con le piccole cose, quelle che fanno tutte le persone al mondo. Alzarsi la mattina e creare qualcosa che ti dia la soddisfazione. Io ho la fortuna di vivere in un posto bellissimo in mezzo alla natura e mi diverto tantissimo in campagna anche se continuo a fare fatica. Ma va benissimo così”. Filosofico. O più semplicemente in pace con se stesso. “Noi la nostra sofferenza interiore siamo abituati a lasciarla lì, cercando di ignorarla, invece il buddismo ti dice che devi affrontarla perché hai tutte le risorse e le forze per superarla – spiegava qualche tempo fa – per me è stato fondamentale capire che tutto dipendeva da me, che dovevo smetterla di lamentarmi della sfortuna o degli altri, che nel momento in cui tu inizi a fare qualcosa il mondo intorno a te risponde”.
Di calcio gli piace parlare. D’altra parte non ingaggi Baggio per fargli parlare dei cerchi: “Noi giocavamo sempre e comunque con la palla, era l’attrezzo che non dovevamo mai perdere e abbandonare. Partivamo da quel concetto lì. Oggi sono cambiate tante cose, credo che manchi la strada, andavano bene due magliette in terra e una porta. Lì ti crei un bagaglio che ti porti per la vita. C’è troppa pressione affinché i nostri figli facciano esperienze proprie, incontrino difficoltà”. Manda i complimenti all’Inter e a Lautaro, si illumina parlando di Zirkzee, ma soprattutto guarda all’Azzurro: “L’Italia ha sempre giocatori di qualità ed è così anche in questo momento. Penso che manchi davvero poco per tornare competitivi. Mi auguro che Spalletti ci riesca, ha le qualità per scegliere i giocatori giusti. Bisogna dargli il tempo di lavorare. Da una Nazionale ci si aspetta sempre che dia tutto. Una cosa devono saperla: il tipo di lavoro che andranno a fare determinerà il risultato”. Il lavoro, il sacrificio. Il talento che non basta se non ti applichi. (“quelli come Leão devono sempre dimostrare qualcosa in più, lo so bene io”). Roby Baggio non gioca più, ma cavolo se ne capisce. Di calcio e di vita.