sulla panchina campione d'Italia
Lo scudetto dell'Inter e l'incrollabile fiducia di Simone Inzaghi
L'allenatore ha continuato imperterrito a seguire il suo credo calcistico nonostante le difficoltà, le crisi, le critiche. Alla fine ha dimostrato che aveva ragione lui, su tutto. E c'era chi lo chiamava aziendalista
Simone Inzaghi ha sentito fare il suo nome parecchie volte, soprattutto negli ultimi anni. C’era sempre qualcuno che gli suggeriva cosa era meglio fare, che sottolineava i suoi errori ripetuti, perché spesso erano gli stessi: quasi a dirgli “ma sei scemo che non vedi certe cose?”.
Simone Inzaghi ha sempre lasciato parlare tutti, quasi mai ha risposto a tono, cercato di zittirli. E questo perché, in fondo, Simone Inzaghi non li ha mai davvero ascoltati, forse li ha uditi, ma se ne è fregato il giusto di quelle parole.
L’allenatore dell’Inter a fatica ascoltava quelle della società, di chi nella società gli suggeriva qualcosa. Lui annuiva, poi faceva spallucce. Andava avanti a suo modo, l’unico che conosceva.
Ci sono allenatori dalle mille risorse e dalle mille facce, che provano a trasformare il calcio in una sorta di filosofia del pallone. E ci sono invece allenatori che di risorse e facce ne hanno solo una. Gente che sa che il calcio è un gioco, una scelta talmente inesatta da diventare una prova d’ostinazione. Bastava stare a sentire Bob Paisley – e l’ex allenatore del Liverpool qual cosa aveva da dire, al limite solo elencare i sei campionati inglesi, le tre Coppe dei campioni, la Coppa Uefa, le tre Coppe di Lega, i sei Charity Shield vinti in carriera –: “Nel calcio serve seguire ciò che si ha in mente, a patto che ciò che si ha in mente non sia una stronzata, fare bene il proprio lavoro, avere la possibilità di allenare giocatori abili e che fanno bene il proprio lavoro, e avere un po’ di fortuna, o meglio che troppa sfortuna non si metta di mezzo”.
Simone Inzaghi non ha il pedigree di Bob Paisley, ma di ostinazione ne ha parecchia. Si è presentato il 21 agosto del 2021 a San Siro con tre difensori, due terzini, tre centrocampisti e due attaccanti, ossia in perfetta sintonia con l’Inter di Antonio Conte. Solo che i tre difensori giocavano diversamente da quelli di Antonio Conte e i tre centrocampisti pure.
In tre stagioni le cose non sono sempre andate bene, a un certo punto si pensava che fosse prossimo all’esonero per mancanza di risultati. Eppure quei tre difensori e quei tre centrocampisti hanno sempre continuato a giocare allo stesso modo. E questo nonostante le analisi tecnici dei più esimi analisti. E questo nonostante i musi lunghi in società, chi in società gli suggeriva che qualcosa doveva cambiare. Simone Inzaghi ha udito tutti, non ha ascoltato nessuno.
E sì che c’è chi lo ha descritto, e a lungo e con una certa sicumera, come aziendalista. Uno, insomma, che faceva tutto quello che diceva la società, che non dava problemi. E aziendalista, nel calcio da panchina, vuol dire solo una cosa: essere senza spina dorsale.
Simone Inzaghi non ha mai fatto polemiche, non si è mai stracciato le vesti per un acquisto non fatto o uno sbagliato, non si è mai lamentato se non è arrivato chi avrebbe voluto o se chi aveva suggerito, e poi era effettivamente arrivato, non rendeva come sperato. Basso profilo, poche parole, spesso di circostanza, assoluto menefreghismo alla polemica fine a se stessa. La semplicità di chi sa che nel calcio tutto si adatta in qualche modo, basta sapere dove si vuole arrivare.
Simone Inzaghi non ha cambiato nulla delle sue convinzioni, non ha mai cercato la perfezione, ha preferito la consapevolezza che questa non esiste e l’imperfezione va benissimo se si è ostinati a migliorare almeno un pochino le cose.
L’Inter di Simone Inzaghi alla fine è riuscita arrivare allo scudetto. Quello che Simone Inzaghi non aveva promesso, ma che giorno dopo giorno ha reso possibile non facendo altro che credere ciecamente nella sua ostinazione di proporre l’unico calcio possibile: il suo, quello che Simone Inzaghi ha portato avanti senza mai mettere in discussione l’impianto tattico.