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Paris Saint-Germain-Borussia Dortmund, tutte le lacrime del Parco dei Principi
I tedeschi si qualificano per la finale di Champions League. Un passaggio del turno allo stesso tempo profondamente ingiusto per quanto visto nei 180 minuti e sacrosanto
Luis Enrique deve aver pensato a uno scherzo al destino che per l’ennesima volta faceva capolino per sgambettarlo. Nel momento del quarto legno di serata del suo Paris Saint-Germain, quando ormai tutto urlava Borussia Dortmund, persino i fili d’erba del Parco dei Principi, l’asturiano si è arreso a un disegno evidentemente più grande di lui. La finale, anche stavolta, non è roba per Al-Khelaifi: il settennato di Mbappé ha messo insieme solamente una speranza sfumata. Era il 2020, l’anno del Covid: ad alzare la coppa dalle grandi orecchie era stato il Bayern Monaco, con il gol decisivo di un ex ragazzino cresciuto a Parigi e diventato uomo altrove, Kingsley Coman.
Anche Edin Terzic deve aver pensato al destino, lui che del Dortmund è innanzitutto tifoso: padre bosniaco, mamma croata, cuore giallonero. Il mestiere di allenatore imparato spiando il lavoro di Klopp e dei suoi assistenti, l’addio all’amato Borussia per seguire le orme di Slaven Bilic, il ritorno, l’incarico ad interim, quindi la possibilità attesa per tutta una vita. Terzic, che è stato parte del muro giallo che terrorizza gli avversari del BVB, a Parigi ha visto i suoi ragazzi compattarsi a protezione di una porta che ha assunto sembianze mistiche: non c’era conclusione in grado di trovare il pertugio giusto. Il muro giallo si è trasferito dagli spalti all’area di rigore e non a caso il gol che ha messo definitivamente in ginocchio il Paris lo ha firmato Mats Hummels, la pietra angolare, uno dei sopravvissuti della finale persa undici anni fa a Wembley. L’altro è Marco Reus, una vita dedicata al Dortmund: quel Dortmund che lascerà a fine stagione, provando almeno per una volta a dribblare la sfortuna che lo perseguita da sempre, come quando si fece male a un passo dal Mondiale 2014, vedendo festeggiare da lontano i suoi compagni di nazionale in Brasile. Non ha mai vinto nulla con la Germania e ha vinto poco con il Dortmund (due Coppe di Germania, tre Supercoppe): ha continuato a saltare grandi tornei (l’Europeo del 2016, il Mondiale del 2022) per infortuni arrivati nel momento peggiore possibile. A Parigi è entrato con il compito di manipolare il tempo, farlo passare più in fretta di quanto non facesse, dare respiro alla trincea.
La vittoria del Dortmund è stata allo stesso tempo profondamente ingiusta per quanto visto nei 180 minuti e sacrosanta se si pensa alla storia recente di un club che un anno fa ha pianto lacrime amare per una Bundesliga sfumata all’ultimo minuto dell’ultima giornata, un suicidio sportivo in piena regola, il segnale divino che alla fine la gloria spetta sempre ai più forti e ai più ricchi. È la vittoria dei gregari e dei reietti. Di Jadon Sancho che qualche mese fa era atteso da Erik ten Hag nell’ufficio di Carrington: il manager olandese aspettava delle scuse che non sono mai arrivate. Grazie a quel rifiuto, oggi Sancho è in finale di Champions League e non dalla parte sbagliata di un Crystal Palace-Manchester United 4-0. Di Marcel Sabitzer, un altro passato senza gloria nel frullatore dei Red Devils e scaricato dal Bayern Monaco. Di Niclas Füllkrug, una vita da sottovalutato, bruttino da vedere ma tremendamente efficace. Di Julian Brandt, che nell’estate del 2021 sembrava a un passo dalla Lazio dopo una stagione vissuta da rincalzo ma ha scelto di aspettare e tornare protagonista. Di Emre Can, un passato juventino che gli ha consentito di scoprire e superare un tumore alla tiroide, un presente giallonero con la fascia al braccio e la voglia di dire al mondo che le critiche, tante volte, se le porta via il vento.
A un certo punto, martedì sera, al Parco dei Principi piangevano tutti. Quelli del Psg, i tifosi più dei calciatori, sconvolti dall’andamento di una partita che non ha avuto nulla di razionale. Quelli del Dortmund, per un traguardo che pareva impensabile a inizio stagione. Piangeva anche Daniele Orsato, all’ultima gara europea diretta in carriera. Una notte strana, catartica, che ci ha ricordato la bellezza di seguire uno sport che fa anche dell’imponderabile la sua forza motrice.