Scrittori in Giro
Alfonso Gatto, poeta in bicicletta
Per l’Unità seguì il Giro d’Italia del 1947 e del 1948, per il Giornale del Mattino il Tour del 1958 e il Giro del 1959. Aveva il dono della leggerezza e della profondità
Gatto: non il corridore, ormai ex, Oscar, ma il poeta, e i poeti non sono mai ex, Alfonso. Alfonso Gatto: Salerno, del 17 luglio 1909, un paio di mesi dopo la nascita del Giro d’Italia. Liceo classico, università interrotta, matrimonio, fuga a Milano. Comunista, poi dissidente. Commesso in una libreria, istitutore di collegio, correttore di bozze, giornalista, insegnante. Poeta. Con tanto di laurea honoris causa. Collaborazioni con riviste dalla vita stentata e difficile, tra cui La Ruota, mensile di politica, letteratura e arte, poi con Rinascita e l’Unità. E sport, chi l’avrebbe mai detto? Gatto ci prese gusto, oltre che soldi. Gatto ci andò per scrivere versi in prosa, oggi si direbbero storie. Per l’Unità seguì il Giro d’Italia del 1947 e del 1948 (furono Pietro Ingrao e Palmiro Togliatti a volerlo); per il Giornale del mattino di Firenze andò al Tour de France del 1958 e al Giro d’Italia del 1959. Poi anche il calcio. Se ne occupò negli anni Settanta, in particolare seguendo la serie A del 1974-75 e 1975-76 per il Giornale di Indro Montanelli. Molta della produzione giornalistica sportiva è stata recuperata e raccolta: gli scritti apparsi su l’Unità in “Sognando di volare” curato da Luigi Giordano (edizioni Il Catalogo di Lelio Schiavone, una galleria d’arte a Salerno, 500 copie, 1983), quelli per il Giornale in “La palla al balzo – Un poeta allo stadio” curato da Filippo Trotta (Limina, 2006). Fu anche attore in film di Pasolini, Rosi e Monicelli. Morì nel 1976.
Nel 1948, per la Eri, Gatto partecipò all’antologia “Giuochi e Sports” con un pezzo intitolato “Il ciclismo” (ripubblicato in “Scrittori in bicicletta” a cura di Nello Bertellini, Vallecchi, 1985) in ottima compagnia: G.B. Angioletti (“L’ippica”), Antonio Baldini (“La passeggiata”), Anna Banti (“Il bridge”), Maria Bellonci (“La ginnastica da camera”), Dino Buzzati (“Il golf”), Emilio Cecchi (“Parole incrociate”), Arnaldo Fratelli (“La tombola”), Gianna Manzini (“I pattini a rotelle”), Paolo Monelli (“Lo scopone”), Vasco Pratolini (“Il calcio”), P.A. Quarantotti Gambini (“Gli sports nautici e velici”), Alberto Savinio (“Il biliardo a carambola”) e Giani Stuparich (“La scherma”).
Gatto chiarisce subito: “Anche se Tristan Bernard dirigeva il Velodrome Buffalo e Toulouse Lautrec s’andava ospite a ritrarre da vicino quei primi velocisti che vi si cimentavano, io sono per la strada, per gli uomini di fondo, per gli scalatori”. Libero di dipingere a parole, Gatto svela: “Oltre i nomi e le date, oltre la cronaca che tutti hanno letta o veduta, restano le immagini che già al primo sguardo ci parve di ricordare. Forse perché non potevamo fermarci, ci dicemmo che il laghetto di Piediluco, così verde, così nato da poco, specchiava un giorno la nostra casa e che all’erta di Ariano eravamo saliti pedalando in sogno, in una fotografia bianca e lunare”. E ancora: “I ‘girini’ si arrampicano a scatti, in fretta, trotterellando con gli stessi movimenti di Ridolini nelle comiche. Gli stessi ometti di allora, quasi usciti di messa, col vestito nero, tentano di spingere gli atleti in crisi, mancando la presa del sellino e rimanendo con la mano avviata nell’aria, come in un addio”.
I ricordi, è lo stesso Gatto a confidarlo, ci prendono per mano: “1947. Col fazzoletto legato sotto gli occhi, come un bandito, Binda corre dietro a Coppi per la discesa del Pordoi. In quel momento la maglia rosa di Bartali a poco a poco si sfilava. Il Giro aveva rotto i suoi vincoli, aveva sciolto tutte le riserve, ritrovava la sua gloria”, “Lassù, sul Pordoi, quelli che con me avevano visto Coppi mordere vittorioso la strada inghiaiata e spiccare vivo nel salto per la discesa, si sentirono per un attimo sospesi nella vertigine”.
Non solo Coppi (che inutilmente aveva cercato di insegnargli a trovare l’equilibrio in bici: Gatto non ci sarebbe mai riuscito: “Per un attimo ho provato la dolcezza del volo, sapendo di cadere ed ero già caduto nella polvere come un guerriero antico”) e Bartali, ma tutti, corridori e popolo. Episodi esilaranti. “Erano usciti da un libro di lettura quei quattro amici che in un paese verso la Scoffera tenevano teso tra due finestre lo striscione di un piccolo traguardo? Sulla porta della bottega di sotto un grosso vecchio con gli occhiali sul naso era intento a scrivere i numeri dei ‘girini’ che passavano. Mi fermai a chiedere di che traguardo si trattasse. Mi risposero che il traguardo valeva soltanto per loro. Avevano scommesso su chi passasse primo o secondo tra quelle case”.
L’anima di Gatto ha il dono della leggerezza. “In un paesino di vetta che domina la Val Trebbia gli abitanti si erano raccolti intorno all’abside della chiesa che segue con la sua curva lo strapiombo della roccia. Lassù, contro l’azzurro, piccoli, piccolissimi, stavano attaccati ai muri. Un ombrello da sole sfuggito di mano a una donna cadde lentamente nella valle come un paracadute. La carovana sussultò. Poi tutti sentimmo il silenzio, volavano le farfalle”.
L’anima di Gatto ha anche il dono della profondità. “Passando per Tivoli conoscemmo Brizzi. Lui correva nel 1910. Ora era soltanto un vecchio con le gambe paralizzate”, ma voleva salutare il Giro, e “quando se lo vide passare davanti, per un attimo, si illuminò e si protese con il busto come se volesse issarsi su quelle povere inutili gambe. Ricadde subito e con la testa appoggiata sul braccio incominciò a piangere, nel vuoto che la folla distratta gli aveva fatto intorno”.