Il Foglio sportivo
De Sisti, l'ultimo Picchio di Roma: “Dal Quadraro a Italia-Germania, il mio calcio da persona seria”
Dai campetti di una parrocchia di periferia all’immortale 4-3 di Messico ’70, accanto a Mazzola e Rivera. Le partite con la maglia giallorossa e quelle in viola, gli screzi con Radice, il rimpianto per la finale persa contro il Brasile. "Sogno solo grandi occasioni mancate”. Storia di una trottola
Ero e sono rimasto un ragazzo di borgata, anche se mi hanno onorato del titolo di commendatore. Vivevo al Quadraro e giocavo per strada e in parrocchia. A interrompere le nostre partite non era un triplice fischio, ma lo sfinimento. Don Verzelli è stato in un certo senso il mio primo mentore. Per provare le triangolazioni più ardite, ci avvalevamo, come supporto, del muro di cinta. Quelle triangolazioni artigianali le avrei ritrovate e riprovate in campo, con l’unica differenza che il muro della parrocchia non sbagliava mai. Tornavo a casa, rasentando il muro di una stradina stretta, perché a un marciapiede non avevano pensato e fra le macchine era pericoloso. Ero, ogni volta, fradicio di sudore e mia madre, che lavorava alla Centrale del latte, si arrabbiava perché temeva mi prendesse un malanno e, per rappresaglia, mi bucava il pallone, ma poi mio padre, che prestava servizio all’azienda filotranviaria STEFER, regolarmente me lo ricomprava. Questo andirivieni di palloni è andato avanti, fino a quando mia madre non ha imposto una perentoria condizione: “Vai a giocare dove ti pare, purché ci sia una doccia a disposizione”. Tornando, mi fermavo, in quella impresentabile condizione da post partita infinita, in una salumeria, dove mi attendeva un panino con lo stracchino prepagato dalla mamma”.
Questa è la storia di Giancarlo De Sisti, detto Picchio, che a Roma stava per trottola, che era il suo modo di stare in campo. Picchio a Roma non chiamano più nessuno e la trottola non si usa più, neppure come giocattolo. Un percorso a ostacoli quasi netto dal Quadraro alla gloria. Quasi seicento partite e sei titoli. Uno scudetto, una Mitropa Cup e una Coppa Italia con la Fiorentina, una Coppa delle Fiere e una Coppa Italia con la Roma, il campionato europeo del 1968 con la Nazionale, oltre naturalmente alla gemma più preziosa: l’immortale Italia-Germania 4-3 di Messico ’70.
“Allora per chi voleva giocare con le docce c’erano le leve calcio, simili nella procedura a quelle del servizio militare. Venne fatalmente anche la leva dei nati, come me, nel 1943. Ci si doveva presentare all’indirizzo indicato e all’ora prestabilita, con un un’unica fondamentale raccomandazione. Al raduno ci si doveva arrivare rigorosamente “già mangiati”. Fu l’inizio di quello che sarebbe, da lì a qualche anno, diventato un miracolo, che chissà se si sarebbe avverato, se avessi accettato l’allettante offerta dell’O.M.I., sigla abbreviata dell’Ottica Meccanica, che giocava, con alterna fortuna, a Tor Marancia. Mi offrivano trentaseimila lire al mese e Dio solo sa quanto avrebbero fatto comodo alla mia famiglia, ma mio padre disse che non era il caso, perché ero troppo piccolo e dovevo pensare a studiare. A fare la differenza fu la condizione posta da mia madre di una doccia dopo l’allenamento. Tre anni di gavetta in una succursale della Roma e poi il miracolo chiamato prima squadra, dove mi ritrovai accanto gli idoli che tenevo incollati sulle pareti di uno stanzino di casa mia”.
Qual è stato l’idolo in carne e ossa che le è rimasto nel cuore?
“Giacomo Losi fu per me un secondo padre, prima ancora che un mentore. Ha fatto da subito il tifo per me e, quando il grandissimo Francisco Lojacono fu costretto a dare forfait per un febbrone da cavallo, fu lui a fare di tutto e di più perché, al suo posto, giocassi io, ma prima di ogni altro metto il Maestro, l’uruguagio Juan Alberto Schiaffino, a cui devo molto di quello che sono diventato. Aveva un concetto speciale di quelle oggi chiamate linee di passaggio. Le linee che, una volta apprese, ti consentivano di intercettare e conquistare il pallone. Devi avere, questo mi diceva, una sorta di radar dentro la testa e, soprattutto, provare a guardare in faccia il tuo avversario. Se lui alza la testa per indirizzare il pallone e incrocia il tuo sguardo, è fatta, perché sarebbe stato aggiogato come da una forma di ipnosi. In questo modo, mi creda, avrò intercettato decine di migliaia di palloni”.
Con la Roma ha partecipato in prima persona alla famosa colletta del Sistina, organizzata dall’allenatore Juan Carlos Lorenzo…
“Fu un’iniziativa insolita. Il ricco che chiedeva i soldi al povero non si era mai visto. Eravamo confusi, quasi storditi. Racimolammo 800mila lire, insufficienti anche a pagare gli stipendi arretrati di un solo calciatore. Finì che devolvemmo quella somma, ai nostri fini inutile, agli alluvionati del Vajont”.
Poi, però, la Roma fece bingo, vendendola per duecentocinquanta milioni alla Fiorentina del Presidente Nello Baglini…
“Facevo il servizio militare al campo estivo di Orvieto. Ci avevano portato, di primissima mattina, a vedere un’esercitazione con i carri armati. Il comandante della Compagnia Atleti venne da me con una copia del Corriere dello Sport in mano, dove c’era scritto che mi avevano venduto alla Fiorentina. Ci rimasi malissimo. Ad aggravare il mio stato d’animo, già di per sé sotto i tacchi, fu una telefonata intercorsa con mia madre, durante una chiassosa cena in trattoria con i miei commilitoni. Mi comunicò che qualche giorno prima erano venuti a ritirare la divisa che avevo indossato al torneo di Sanremo perché intendevano darla in uso a qualche altro aspirante campione. Mi strappavano con la forza un ricordo, a cui ero particolarmente affezionato. E, poi, non mi piaceva andare a giocare in una squadra diversa dalla Roma. In quel momento non sapevo che alla Fiorentina mi avrebbero accolto come un principino e che tre anni dopo con la maglia viola avrei vinto, da capitano, lo scudetto”.
Era una grande squadra…
“C’erano Beppe Chiappella ed Egisto Pandolfini, che caldeggiò, insieme a Egidio Guarnacci, il mio trasferimento. Mi spiegarono che la Fiorentina, che aveva acceso gli animi e fatto sognare i tifosi, aveva bisogno di un regista giovane, di un uomo d’ordine da mettere al comando della corsa. Dunque ero io, e nessun altro, al centro del progetto. Era una suggestione affascinante che cambiò di colpo l’umore di un ragazzo, che era andato via da Roma con le lacrime agli occhi. Mi mancava mia madre, mi mancavano i miei amici, mi mancava la mia ragazza, che sarebbe diventata mia moglie. Io e Nadia stiamo ininterrottamente insieme dal 1961. Alla Fiorentina, asciugate le lacrime, sarei rimasto nove anni”.
Che ricordo ha di quel memorabile scudetto?
“La matematica certezza arrivò alla penultima giornata con la vittoria per 2 a 0 a Torino contro la Juventus. I tifosi erano letteralmente impazziti. Nessuno di noi, e di loro, chiuse occhio in quella indimenticabile notte di passione colorata di viola. Avevamo compiuto un’impresa che già allora era leggenda e io ero, strada facendo, diventato il capitano, designato da quello precedente, Giovanni Pirovano, che ormai giocava troppo poco per conservarla per sé. Dicevano tutti che ero capitano già dentro la culla. Quella fascia al braccio ho cercato di onorarla sempre. Come si conviene al capitano scelto della squadra, che aveva conquistato lo scudetto sotto la sua guida. L’entusiasmo e le lodi, che mi arrivavano direttamente sulla pelle, rischiarono di farmi sentire anche più bravo di quanto non fossi realmente”.
Da lì in poi, niente è più stato indimenticabile…
“Seguirono anni tranquilli, seppure senza particolari acuti, sino all’avvento di Gigi Radice”.
Con lui entrò subito in rotta di collisione?
“Radice era un allenatore di assoluto livello, ma era venuto a Firenze con l’idea preconcetta che io fossi una sorta di padroncino, che allungava mani e piedi su ogni cosa. Non era vero. Io non volevo comandare. Erano stati i miei compagni a scegliermi come loro leader. Guidare la squadra mi veniva naturale. Non a caso, quando alla Fiorentina avevo avuto come allenatori Bruno Pesaola e Nils Liedholm, mi autorizzavano a prendere delle decisioni tattiche dal campo, prima che loro stessi riuscissero a comunicarle nel frastuono assordante. E, poi, presunto padroncino a parte, Radice voleva fare giocare Giancarlo Antognoni al posto mio e, per dargli spazio, aveva pensato di retrocedermi a mediano”.
Per lei fu un fulmine a ciel sereno…
“Mi chiese se mi dispiaceva rinunciare alla maglia numero 10, che voleva passasse sulle spalle di Antognoni. Gli risposi che non era una questione di numeri, ma di ruolo. Se dovevo fare il mediano incontrista, era meglio che scegliesse un altro. Di lì a poco, mi infortunai e tutto diventò complicato. La querelle si ripropose quando tornai disponibile e restai misteriosamente fuori. Il focherello diventò una polveriera quando sul Corriere dello Sport-Stadio virgolettarono un mio ultimatum, peraltro inventato di sana pianta. La situazione precipitò, nonostante mi fossi detto pronto a qualsiasi confronto chiarificatore con l’autore dell’articolo quanto meno mal titolato, sino al punto che fui tentato di prenderlo a pugni dopo che aveva preteso che andassi a Foggia con la squadra, nonostante fosse appena nata la mia seconda figlia, per poi non farmi giocare. Infuriato, gli dissi che per nessuna ragione al mondo sarei rimasto alla Fiorentina, con lui in panchina e chiesi al Presidente Ugolino Ugolini di cedermi a qualsiasi altra squadra di serie A. Fu così che nel 1974 tornai alla Roma, anche perché Liedholm mi volle fortissimamente alla sua corte. Tornavo a casa, dopo nove meravigliosi anni da Principe di Firenze. A Cesena, nel giorno del mio ritorno in campo dopo l’infortunio, c’erano stati cinquemila fiorentini che gridavano all’unisono il mio nome. Era qualcosa di commovente, di cui non si volle tenere conto. Resta uno dei ricordi più belli di tutta la mia carriera. Prima che me ne andassi, Radice riconobbe pubblicamente che, nonostante avessi raggiunto quella che lui chiamava l’età dei datteri, davo ancora la paga a tutti i giovincelli della rosa. Un riconoscimento risarcitorio, che arrivava, però, fuori ogni tempo massimo”.
Non fu un semplice cambio di casacca…
“Da una parte, mi dispiaceva perché a Firenze lasciavo una parte del mio cuore. Ero stato bene come un Papa laico. Dall’altra, ero felice di riabbracciare la mia città, la Roma, casa mia e uno degli allenatori che più mi avevano da sempre stimato. A Roma ho giocato per altri cinque anni, di cui i primi tre alla grandissima e gli altri due, via via declinanti, con dei ragazzotti che inesorabilmente cominciavano a correre più di me”.
Qual è il suo ricordo più bello. Al di là dello scudetto vinto?
“Italia-Germania 4-3 nella notte magica dell’Azteca rimane il flash più luminoso nel caleidoscopio a infinite tinte della mia memoria”.
Anche perché lei, tanto per cambiare, quella partita la giocò per intero, mentre Mazzola e Rivera si dividevano i minuti e spaccavano l’Italia fra guelfi e ghibellini.
“A restare sempre in campo con a fianco uno o l’altro campione di quella levatura da una parte mi inorgogliva, dall’altra mi faceva riflettere sull’importanza della mia funzione di metronomo equilibratore”.
E quello più triste?
“La partita successiva. Quella finale persa per 4 a 1 contro uno dei Brasile più forti di tutti i tempi. Eravamo riusciti a pareggiare con Roberto Boninsegna lo svantaggio iniziale e siamo rimasti in partita sino al settantunesimo minuto. A distanza di più di mezzo secolo, resta l’amara a sensazione che potevamo fare molto di più. Tutti gli altri rimpianti sfigurano al confronto della montagna gloriosa che non siamo riusciti a scalare sino in cima. Sa come è il calcio? Fino a quel momento eravamo stati fenomeni. Ora ci ritrovavamo a essere etichettati come emerite pippe”.
Il calciatore più forte con cui ha giocato?
“Nella mia personale classifica Schiaffino non è mai stato scalzato. Era uno che aveva libro del calcio dentro la capoccia. Un fenomeno ineguagliabile. Il più forte che ho allenato è stato, invece, Passarella. Univa tecnica, grinta e carisma come nessun altro”.
Le capita ancora di sognare?
“Sogno spesso un pallone che non riesco a indirizzare verso la porta perché, al momento di tirare, c’è sempre qualcuno che me lo sottrae. Sogno solo grandi occasioni mancate…”.
Fra cinquant’anni come vorrebbe essere ricordato, Giancarlo De Sisti, l’ultimo Picchio di cui si conserva la memoria?
“Come uno delle persone più serie che hanno calcato i campi di calcio”.