Eriksson - foto Ansa

Il Foglio sportivo

Il calcio sa anche amare: il farewell tour pieno d'amore di Sven Goran Eriksson

Fulvio Paglialunga

La manifestazione di stima del mondo del calcio per Eriksson: un grande dello sport che gioca la partita decisiva contro la malattia 

Sven Goran Eriksson ha la sciarpa della Sampdoria al collo. Ti immagini silenzio, stupore, uno stadio con il fiato sospeso, dura un secondo pieno. Poi quel fiato è tutto fuori, si canta, applaude, sorride, omaggia. Eriksson è a Marassi, ventisette anni prima era su quella panchina e allenava la squadra che ora ha creato un corridoio per farlo sfilare: Roberto Mancini lo scorta, gli altri, facce che in campo abbiamo visto milioni di volte, sono lì con la mano tesa per salutare e composta felicità. La gente è intorno, tanta, intona cori d’amore, Eriksson si inchina.
Il sorriso, il suo sorriso: cercate il video e guardate il sorriso, mentre i bordi del campo si colorano di fumogeni. Poi l’espressione che cambia, la commozione. Si può anche piangere, dicendo che la colpa è proprio dei fumogeni, di quell’odore acre che entra nelle narici, di quel grigio che oscura la vista.

La fortuna di chi ha seminato è sapere che un giorno potrà raccogliere, poter gioire di ciò che è spuntato, guardare quello che è bello. Eriksson lo guarda ogni giorno, ovunque si trovi, da gennaio. Da quando la malattia si è presentata, come sempre senza preavviso, e gli ha detto con brutalità: hai un tumore al pancreas, incurabile, non ti resta più di un anno di vita. Era collassato senza preavviso dopo una corsa di cinque chilometri, la diagnosi non lo ha trovato pronto, ma un attimo dopo era in piedi a raccontarlo, a rendere pubblico il drammatico conto alla rovescia, attirando a sé, senza chiederlo, l’amore del calcio che ha conosciuto, attraversato.
Cosa comincia, dal giorno in cui l’elegante allenatore svedese porta la sua malattia all’esterno, è quasi inspiegabile o forse lo è perfettamente. Tutto spontaneo, una mobilitazione a catena. Il Liverpool chiama Eriksson, per allenare le leggende Reds contro l’Ajax, nell’annuale partita solidale della Fondazione LFC, l’ente di beneficenza ufficiale del club: una gara vera, tra uomini che hanno fatto la storia e con lo stadio pieno. Per Sven Goran, un sogno, per amor suo e amore di suo padre, tifoso proprio del Liverpool: la possibilità di sedersi sulla panchina di Anfield, inseguita per tutta la vita. Da quando nel 1979, appena arrivato a guidare il Goteborg, scrisse agli inglesi per chiedere di poter seguire gli allenamenti di Bob Paisley. La partita è un giorno straordinario fatto di sguardi e sospiri, come lo aveva immaginato da bambino: a sentire You’ll Never Walk Alone, a dare indicazioni a campioni in casacca rossa, di quel rosso lì. L’ovazione vale tutto il tempo passato ad aspettare, l’abbraccio delle stelle la foto scattata mille volte a occhi chiusi.

Il Liverpool, poi il Benfica. Su quella panchina in Portogallo Eriksson invece c’è stato anche durante la carriera, ha vinto tre campionati, raggiunto due finali europee. Il Benfica lo invita, lui va. E trova, prima della partita di Europa League contro il Marsiglia, uno stadio in piedi a salutarlo, entra e scopre che anche qui – come a Genova domenica – il corridoio è fatto da campioni schierati su due file, i campioni che ha allenato in quegli anni. “È bellissimo”, dice al microfono dal centro del campo. E poi: “Muy obrigado”, perché Eriksson conosce perfettamente la lingua di ogni nazione in cui ha allenato.
Il Benfica, e poi il Goteborg. Da lì ha iniziato, dalla sua Svezia. E lì nel 1982 vinse campionato, coppa nazionale e coppa Uefa nella stessa stagione. Altro invito, altro ingresso in campo con la sciarpa al collo, prima della partita con il Norrkoping, altra impressionante ovazione, gigantografia in Curva, altri momenti di commozione: “Non so se è pioggia o lacrime, penso che siano lacrime”.
Infine, la Sampdoria, domenica. Svennis sembra voler guardare in faccia uno a uno gli uomini sugli spalti: “Cantavano il mio nome ragazzi che non erano nati quando io allenavo la Samp, è stato molto bello”.
Una incredibile serie di passerelle non organizzate, inviti istintivi, moti di gratitudine nati il giorno in cui Eriksson ha detto che non gli rimane molto da vivere. I grandi dello sport, soprattutto americano, quando decidono di ritirarsi spesso scelgono di annunciarlo all’inizio dell’ultima stagione. Da quel momento ogni partita, in ogni stadio o palazzetto, diventa una cerimonia. Si chiama farewell tour, poi la carriera finisce. Eriksson si trova a farlo senza averlo previsto, sapendo che non è la fine della sua carriera che si celebra. Però sorride.

Dopo la partita con il Liverpool ha motivato il suo stato d’animo, senza sapere che il tour era appena iniziato: “Sono molto fortunato: tutte le cose che ho fatto bene vengono celebrate mentre ci sono ancora. Non è normale; di solito devi morire prima che la gente ti dica quanto eri bravo. Mi rende felice che me lo dicano mentre sono ancora vivo”. Il calcio è bello per questo: perché ché ci sono gli Eriksson. È bello perché ama.

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