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Tonici e cordiali: un altro Giro di storie

Il Giro d'Italia tra centerbe, camosci, genziane e un'effimera Maglia rosa

Gino Cervi

L'Abruzzo ha un vasto patrimonio di amari, liquori e distillati di antica tradizione erborista, monastica e contadina, trasformatasi col tempo in sapienti e aggiornate produzioni artigianali

Oggi il Giro, col traguardo di Prati di Tivo, alle falde nordorientali del Massiccio del Gran Sasso, entra in Abruzzo, terra forte, come la sua gente, le sue montagne, i suoi sapori. Tra questi un vasto patrimonio di amari, liquori e distillati di antica tradizione erborista, monastica e contadina, trasformatasi col tempo in sapienti e aggiornate produzioni artigianali.

 

Un patrimonio così ricco che è impossibile trovare un prodotto “bandiera”, nonostante esista, prodotto da diversi marchi, un Amaro d’Abruzzo, dal gusto deciso ma al contempo mitigato da fresche sfumature d’agrumi. Una delle produzioni più longeve, però, è il Centerbe, inventato fin dal 1817 da Beniamino Toro, liquorista con bottega a Tocco di Casauria. L’invenzione si ispirò alla tradizione contadina della cianterba, che prevedeva la raccolta di centinaia di erbe spontanee aromatiche che crescevano, e crescono, sulle pendici del Gran Sasso, del Monte Morrone e della Maiella, per farne distillati domestici dalle proprietà medicamentose. Le erbe un tempo venivano raccolte ancora verdi e trasportate in grandi sacchi di juta in luoghi dove si procedeva all’essicazione e alla selezione delle parti migliori, dalle foglie alle bacche. Quindi avveniva la macerazione in alcol con aggiunta di altre spezie per una durata da tre a sei mesi. Infine, la torchiatura estraeva dalle erbe la tintura, detta anche “la madre” del centerbe. Diluita, leggermente colorata, ma non zuccherata, quindi filtrata per eliminare le impurità, veniva quindi messa a invecchiare, prima di essere imbottigliata. Beniamino Toro, dopo averlo fatto conoscere, attraverso la sua produzione e commercializzazione, in tutto il Regno di Napoli prima e in Italia poi, negli anni ha portato il Centerbe a una elegante raffinazione dell’amaro tradizionale: la sua forte gradazione alcolica, che raggiunge i 70°, si fa apprezzare anche nella degustazione liscia oppure nell’aromatizzazione di altre bevande.

 

Il Centerbe è anche entrato nel repertorio della canzone d’autore, grazie a un bel testo di Max Manfredi:

 

Centerbe, lo so che sei verde,
lo so che non togli la sete
sei occhi di lupo di bosco
e lontananze d’abete
a berti divento filosofo,
speculo che la vita intera
è tutta in questo distillare erbe di brughiera
a berti divento ubriaco
e litigo col roveto ardente
a berti divento poeta
così non dico più niente.

 

 

Impossibile parlare d’Abruzzo, e anche di amari e liquori, senza imbattersi nell’onnipresente “imaginifico” D’Annunzio. Il vate Gabriele, al culmine della sua celebrità, battezzava prodotti commerciali nominandoli come un dio alle prese con la genesi delle cose. E siccome con le parole indubbiamente ci sapeva fare, molti di queste invenzioni divennero celebri: per restare nell’ambito della sola liquoristica, a D’Annunzio si deve il naming – come si direbbe adesso – al pescarese Aurum, liquore a base di brandy italiano invecchiato di otto anni e di distillato in alcol di arance: il gioco linguistico era quello di “mixare” la parola latina dell’arancia, Citrus aurantium, con il colore dorato del liquore: D’Annunzio lo definì infatti "levis pondere aurum", “oro di lieve peso”, riferendosi, oltre che al suo cromatismo, anche alla leggerezza del suo gusto moderatamente alcolico (40°).

 

Altri liquori tipici abruzzesi sono la Genziana, gialla paglierina all’occhio e decisamente amarognola al gusto, ma dalle spiccate qualità digestive; e il Ratafià, che nasce dal connubio tra le amarene e il Montepulciano d’Abruzzo. Genziana e Ratafià richiamano un poco i caratteri di due ciclisti che sulle strade d’Abruzzo entusiasmarono i tifosi di un tempo. Il primo, spigoloso e tagliente, a Vito Taccone che di questa terra era figlio, marsicano di Avezzano, per la precisione: il “Camoscio d’Abruzzo”, pur non vincendo mai tappe abruzzesi nelle sue undici partecipazioni al Giro, fu letteralmente un mattatore in un numerose edizioni della Corsa Rosa tra il 1961 e il 1967: otto tappe, due vittorie nella classifica degli scalatori (1961 e 1963) e infiniti duelli a colpi di manubrio e parole con avversari e cronisti. Memorabile, ma per la sincera dolcezza del dialogo, lo scambio di battute tra Taccone e Pier Paolo Pasolini in un Processo alla tappa del 1969:

 

 

Più morbido e “accomodante”, come un Ratafià, o ancora meglio come un liquore alla ciliegia di Marostica – che è del resto la sua città natale – il vicentino Giovanni Battaglin che, nel 1975, arrivò primo sul traguardo di Prati di Tivo, la sola altra volta, prima di oggi, che il Giro tagliò il traguardo da queste parti. Era la terza tappa, la Ancona-Prati di Tivo, di 175, e Battaglin vinse con 21’’ di vantaggio su Francisco Galdos e 1’53’’ su un altro spagnolo, Miguel Maria Lasa, conquistando la maglia rosa. La tenne però soltanto per un giorno, salvo riprenderla dieci tappe dopo, nella cronometro di Forte dei Marmi, ma per lasciarla di nuovo l’indomani sulle spalle di Fausto Bertoglio che, invece, la portò fino alla fine.