Luigi Ganna durante il Giro d'Italia 1909 (foto Wikimedia Commons)

Il Foglio sportivo

Che avventura quel primo Giro d'Italia

Fabio Tavelli

Il 13 maggio del 1909 partiva da Milano la prima edizione della corsa rosa. Il successo di Luigi Ganna con lo storico commento: “Me brusa el cu...”

I francesi lo avevano fatto per primi disegnando un grande anello (da lì l’appellativo di “Grande Boucle”) nel 1903. Agli organizzatori era un po’ scappata la mano perché avevano previsto sei tappe (fortunatamente in giorni non consecutivi visto che ogni frazione misurava mediamente 600 km su strade non esattamente simili a quelle di oggi e con biciclette che potete immaginare) per quasi 2.500 km. Partenza e arrivo a Parigi, ovviamente, con passaggi a Lione, Marsiglia, Tolosa, Bordeaux e Nantes. L’iniziativa faceva capo ad un giornale, “L’Auto”, stampato su carta gialla. Stesso colore dalla futura maglia del leader. Che fu il valdostano Maurice Garin (anche se non vestì mai di giallo visto che la maglia gialla fu introdotta nel 1919), soprannominato “cul de fer”, che un giorno raccontò che dopo la prima tappa, vinta con un vantaggio di due ore sul secondo, si addormentò risvegliandosi dopo 14 ore con morsi della fame che si placarono dopo aver ingurgitato, raccontò non senza un filo di esagerazione, due polli, tre bistecche, una frittata con venti uova, dodici banane e due litri di vino rosso. Chiuse la giornata andando a pesca sul Rodano.

In Italia la “Gazzetta dello Sport” e il suo intraprendente direttore, Armando Cougnet, sognavano di emulare i cugini d’Oltralpe, usando il rosa al posto del giallo. La sfida era lanciata e a contendere l’organizzazione alla Gazzetta c’era il Corriere della Sera (naturalmente le testate avevano editori diversi). Un confronto tutto milanese che aveva il sostegno anche di altri protagonisti. Il Touring Club italiano e la ditta Bianchi (biciclette) si erano schierati con il Corriere. La Gazzetta poteva invece contare sul sostegno della Velocipedi Atala.

Il 24 agosto del 1908 la Gazzetta scese ufficialmente in campo con un’edizione speciale nella quale annunciava che nella primavera del 1909 si sarebbe svolto il primo Giro d’Italia della storia. Tremila chilometri di tracciato, 25 mila lire di premi complessivi. Il dado era tratto, il Corriere dovette incassare con stile la sconfitta. Il 1909 è un anno nel quale le elezioni generali confermano la maggioranza liberale alla guida del paese, Guglielmo Marconi riceve il Nobel per la Fisica e Filippo Tommaso Marinetti lancia il Manifesto del Futurismo. C’è fermento intorno agli avvenimenti sportivi. Purtroppo le strade percorribili, si fa per dire, in modo decente non risiedono a sud di Napoli. Gli organizzatori pensano a sei, massimo otto tappe, con partenza da Milano e transito non oltre il Vesuvio. Atala e Bianchi sono le squadre sulla carta più forti. Si iscrivono in 166, dei quali 102 sono privi d’ingaggio, e passi, ma soprattutto di assistenza da parte delle ammiraglie. I ciclisti italiani sono quasi tutti settentrionali. Poi ci sono gli stranieri. Sei francesi, con Lucien Petit-Breton grande favorito dopo aver vinto la Sanremo nel 1907 e due Tour de France (1907 e 1908), due tedeschi, un argentino, un belga, un austriaco e un russo. I principali protagonisti del pedale italiano sono personaggi da romanzo. Il muratore varesino Luigi Ganna, detto “el magut”, dotato di straordinaria resistenza temprata in quotidiani viaggi in bici tra Varese e Milano (e ritorno in giornata). Il pavese Giovanni Rossignoli, detto “baslot” in onore della sua caratteristica (oltre ai baffetti all’insù) di finire la corsa con più kg addosso rispetto a quelli che la bilancia indicava prima di partire (era un culture della trattoria a metà gara). C’erano poi Carlo Galetti, lo “scoiattolo dei Navigli”, agile e brillante scalatore milanesi, Giovanni Gerbi, il primo vero professionista (fu anche il primo in assoluto a depilarsi le gambe) abilissimo nelle strategie e soprannominato “il Diavolo rosso” da un parroco di periferia quando lo vide piombare, di rosso vestito, su una processione con strike dei fedeli che lo seguivano preganti. Ai partecipanti viene dato un volantino che richiama agli antichi valori della cavalleria con un incipit solenne: “Corridori!!! L’ora è prossima, la battaglia incombe”. Un gergo vagamente battagliero e in linea che i tempi che arriveranno. La classifica non sarà a tempi ma a punti. Il vincitore ne riceverà uno, il secondo due, il terzo tre e via così fino all’ultimo. Ovviamente vincerà che totalizzerà il punteggio inferiore… 

Le condizioni (pessime) delle strade e il lungo chilometraggio impongono almeno un paio di giorni di riposo dopo ogni tappa. Le biciclette pesano circa 15 kg e sono dotate di parafanghi e campanello. I corridori portano due borracce, una con acqua e una con vino (qualcuno si porterà pure una fiaschetta di grappa), due palmer di scorta incrociati al torace e agganciano sotto la sella gli attrezzi per le riparazioni. Le forature sono la normalità, i corridori dovranno cavarsela da soli senza poter essere aiutati. 

La partenza è fissata giovedì 13 maggio 1909. Ritrovo prima delle tre del mattino al rondò Loreto (diventerà Piazzale qualche anno dopo). Alle 2.53 il primo start della storia. Perché a quell’ora antelucana? Perché la prima tappa prevede la partenza da Milano e l’arrivo a Bologna. Quattordici ore abbondanti di viaggio su quelle selle così rigide. Per tacere delle cadute (una subito in avvio a causa dell’entusiasmo del pubblico che per salutare i ciclisti ne fa cadere a terra alcuni. Tra questi Giovanni Gerbi, tradito da un bambino che gli taglia la strada). Non fu semplice individuare in Dario Beni vincitore della prima tappa. L’effervescenza della gente assiepata causa capitomboli all’arrivo come in partenza e Beni fu bravo innanzitutto a rimanere in piedi. 

Da Bologna verso Chieti per la seconda tappa, poi arrivo a Napoli alla terza e risalita dello Stivale attraverso Roma, Firenze, Genova e Torino. In ogni frazione la difficoltà per i partecipanti era anche quella di non sbagliare strada. Possibilità che diventava certezza vista l’impossibilità di segnalare ogni svolta. Alcuni corridori venivano dati per dispersi e ritrovati giorni dopo, altri si rifugiavano nelle case di chi offriva ospitalità e riguadagnavano a fatica la via di casa. Qualche furbo cercò invece di saltare su un treno per poi ripresentarsi bello fresco qualche decina di km più avanti. Ma gli organizzatori riuscirono a beccarli tutti e a squalificarli senza appello. 

Nell’ultima tappa, con Ganna favorito ma attardato dalla millesima foratura, ecco l’attacco deciso di Galetti e Rossignoli. A fermarli non fu la reazione del “magut” ma il passaggio a livello tra Busto Arsizio e Rho. Fermi tutti, bloccati dal personale ferroviario, e nessuna possibilità di scavalcare. Ganna rientra e al traguardo all’Arena di Milano vince ancora Beni come a Bologna. Ganna arriva terzo e si aggiudica la prima edizione del Giro con due punti di vantaggio su Galetti e quindici su Rossignoli. Al momento di realizzare l’intervista esclusiva con il vincitore, Armando Cougnet dopo aver posto la prima domanda generica su come si sentisse riuscì a strappare al vincitore Luigi Ganna il suo immortale commento: “Me brüsa tant 'l cü!”.

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