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Crocicchi #36

Quando il Bologna è diventato da Champions

Enrico Veronese

I rossoblù il prossimo anno giocheranno la Champions League dopo una stagione straordinaria per gioco e risultati. E a breve arriverà il momento delle scelte. La prima di tutte: investire o no?

A sessant’anni esatti dall’ultimo scudetto, vinto allo spareggio proprio contro gli attuali neocampioni dell’Inter, e a quasi novanta dallo “squadrone che tremare il mondo” faceva, consegnando alla Nazionale italiana molti campioni iridati, il Bologna accede per la prima volta alla Champions League 2024-25, da terzo provvisorio in classifica. E già questa è “la” notizia del campionato di Serie A che si sta per concludere: più del crollo non preventivabile del Napoli tricolore uscente (allo stadio Maradona il passaggio di consegne tra le due sensazioni), più degli stenti stagionali della Juventus, più dell’esonero di José Mourinho e delle illusioni romaniste con Daniele de Rossi, anche sopra appunto la cavalcata trionfale dell’Inter.

Sotto il santuario di San Luca, un torneo così lo aspettavano dai tempi dei ritorno in A alla fine degli anni Novanta, decenni a barcamenarsi tra salvezze anticipate e utopie Uefa, nel ricordo dello champagne di Gigi Maifredi - che in Europa pure arrivò - e nel nome delle eterne bandiere: Giacomo Bulgarelli, Giancarlo Marocchi, Gianluca Pagliuca. A riportarcelo è stato un brasiliano di terza generazione, Thiago Motta i cui antenati sono partiti da Polesella (Rovigo), ottanta chilometri dallo stadio Renato dall’Ara: innovatore in campo, criptico nelle conferenze stampa, standing internazionale da trascorsi azzurri e parigini, il tecnico ha infuso alla squadra il suo credo calcistico, ottenendo dedizione, applicazione all’obiettivo sopravvenuto e una certa dose di sana follia.

Non esistono ruoli, nella lavagna di Thiago, che pure non è un epigono di Rinus Michels. Ma giocatori polivalenti, dosati tra campo e panchina a ricavarne il massimo: un cambio per ogni reparto, utile a tenere sulla corda chi gioca dall’inizio; la coltivazione dei giovani, più di una volta decisivi fuori dai radar come Oussama el Azzouzi; l’alternanza inedita tra due portieri in fasi differenti della rispettiva carriera. Motta partecipa al mercato, dove vige la forza del club: si chiama Giovanni Sartori l’artefice delle scelte estive, lo stesso manager dietro il consolidamento ventennale del Chievo e l’esplosione dell’Atalanta di Gian Piero Gasperini.

Se c’è un parallelo possibile tra queste due ultime esperienze, non sta troppo nei paraggi tattici, quanto nella decisione - una volta e per tutte - di svoltare sistemi e interpreti partendo da una singola partita. Fu una vittoria contro il quotato Napoli di Maurizio Sarri, il 2 ottobre 2016, a determinare il decollo dei bergamaschi: Gasp lanciò Andrea Conti e Mattia Caldara (che avrebbero dovuto garantire anni luminosi, e invece si sono persi per infortuni e non solo), diede fiducia a Roberto Gagliardini, impostò Remo Freuler quale geometra mobile dal difficile rimpiazzo. Lo stesso che, ancora più maturo, oggi detta legge nell’overperformance del centrocampo bolognese.

Quasi allo stesso modo, quando si può dire che l’undici rossoblu ha cominciato a credere di poter essere davvero da Champions, complici anche le défaillance avversarie?

Le prime avvisaglie furono gli stretti pareggi esterni contro la Juve e l’Inter: il primo, a fine agosto, con giuste recriminazioni per la mancata concessione di un rigore a Dan Ndoye, dopo un incontro dominato dalla scuola di Motta contro il calcio ruminato da un Massimiliano Allegri ormi figlio di nessuno. Il secondo, in rimonta dopo tre zero a zero consecutivi, convinse un po’ tutti che quel pennellone olandese a nome Joshua Zirkzee valesse da solo il prezzo del biglietto. Ma in un autunno costellato di pareggi esterni e vittorie a domicilio, il tappo del Pignoletto saltò una fredda sera prenatalizia sempre allo stadio Meazza, per l’incombenza della coppa Italia: l’Inter, già in vetta al campionato, viene ribaltata dalla classe del numero nove, subentrato a fornire due assist meravigliosi per il passaggio del turno nei tempi supplementari.

Fu in quel momento, probabilmente, che nei giocatori felsinei scattò il meccanismo capace di convincerli a tentare l’impresa, come i cavalieri di Pupi Avati. Quanto sarebbe bello un suo film a raccontare questa stagione: un altro franco pareggio a Milano nel nome di JZ9, le sei vittorie di fila in un mese, i prodigi balistici di Riccardo Orsolini, la crescita di Alexis Saelemakers, la “zona” Giovanni Fabbian che toglie spesso le castagne dal fuoco all’ultimo minuto, il boom di Riccardo Calafiori difensore (e non solo) del futuro, il silenzio del capitano nominale Lorenzo de Silvestri - che c’è quando serve - e quello concreto del capitano effettivo, Lewis Ferguson, che parla con i fatti.

Come spesso accade in tali situazioni non preventivate, è l’avvenire a riservare le maggiori incognite: l’allenatore rimarrà a godersi la meritata conquista, o preferirà guadagni più cospicui in contesti da rifondare con il rischio di rigetto? Il centravanti cederà alle lusinghe dei top club europei, oppure deciderà di non essere uno dei tanti in una città ancora a misura di vita privata, dove poter seguire l’amato basket senza pressioni? Il dualismo tra l’affidabile Łukasz Skorupski e l’eroe cittadino Federico Ravaglia verrà risolto, in un senso o nell’altro? Solo alcuni dei crocicchi che la preparazione societaria, alle prese con l’inedita “grana” del cammino continentale, è chiamata a districare, contando un budget per forza di cose differente rispetto al passato.

Intanto mancano 180 minuti al sipario, e di storie da raccontare ce ne sono ancora molte. Come Sergio Pellissier che si ricompra il titolo sportivo del Chievo, inseguendolo fino in tribunale per quanto sia marchiato sopra la sua carriera. Come il Milan che segna cinque reti con undici atleti tutti nuovi, a leggere i nomi nelle maglie: sono quelli delle madri, che forse hanno istillato nuovo orgoglio e consapevolezza in chi è sceso in campo. Ecco perché pareva diversa anche la visione del match… Se questi sono i risultati, vale dire, continuate a tenerli addosso. E piace pensare che il 12 maggio il simpatico trick, mutuato pure da altre compagini, abbia celebrato con i cinquant’anni dal referendum confermativo del divorzio anche le libertà civili delle donne di autodeterminarsi, oltre alla giusta sensibilizzazione verso le recenti sentenze e norme per l’adozione del doppio cognome genitoriale alla nascita. Il calcio, nonostante ciò che è diventato, può contribuire a fare questo e altro.

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