Scrittori in Giro
Il ciclismo di Zavoli, che usava le parole come tasti di un pianoforte
Il suo “Processo alla tappa” di Zavoli era ribelle e garbato, rivoluzionario e sentimentale, scandaloso e romantico, improvvisato e arricchito da giornalisti, attori, scrittori e, soprattutto, gregari
Il “Processo alla tappa” di Sergio Zavoli debuttò alla radio nel 1958, traslocò in televisione nel 1962 e ci abitò fino al 1970. Un programma rivoluzionario. Quello di oggi è solo un lontano parente. Il “Processo” di Zavoli era ribelle e garbato, rivoluzionario e sentimentale, scandaloso (come quando, era il 1965, Felice Gimondi si fece scappare l’espressione "è successo un gran casino") e romantico, improvvisato e arricchito da giornalisti, attori, scrittori e, soprattutto, gregari. Le lezioni più convincenti, sosteneva Zavoli, le doveva proprio al ciclismo, e in particolare ai gregari: "I gregari mi parlavano della vita in generale, i campioni della loro vita in particolare". Una bella differenza. Fu così che lanciò umili pedalatori come "Italo Mazzacurati, bolognese, lo spirito allegro del gruppo, che con un’invenzione scompaginava la carovana. La sua specialità era navigare in fondo al plotone e imprigionare qualche capitano rimasto attardato. La chiamava: la ragnatela". Fu così che immortalò modesti fuggitivi come "Lucillo Lievore, vicentino, che un giorno guadagnò 17 minuti sul gruppo. Sarà stato per il distacco, immenso, o per il paesaggio, fatto di calanchi e terra simile alla pomice, che quella fuga solitaria divenne epica, anzi, metafisica. Lievore temeva che il gruppo lo riprendesse. Ma la cosa straordinaria era che davanti a lui c’era un altro corridore, Pietro Scandelli, lombardo, Lievore lo sapeva, io no. E alla fine tutto questo mi sembrò un’altra metafora della vita: si può lottare anche per arrivare secondi, o terzi, o ultimi, o fuori tempo massimo. Perché il mondo è fatto di gente che sputa sangue pur di farcela». Come Giovanni Pettinati: «Pettinati, che se qualcuno del suo stampo gettava le banane nei fossi per vuotare il sacchetto e alleggerire la schiena, lo costringeva a fermarsi e a raccoglierle perché le banane, i loro figli, le vedevano solo a capodanno". O come Giancarlo Astrua: "Astrua, che arrivava al traguardo con gli occhi bianchi, come se per spingere sui pedali avesse espulso le pupille".
"Devo a Zavoli – scrive Gian Paolo Ormezzano in “I cantaglorie” (66thand2nd) – la lezione di giornalismo impartitami quel giorno a Terracina, sul traguardo di una tappa del Giro d’Italia, quando si temeva che sotto la tribunetta crollata a pochi metri da noi ci fossero i corpi di due ragazze". Era il 1969: morì un bambino. "Mi esortò a partecipare lo stesso alla trasmissione che andava a cominciare, al ‘Processo’ dove ero ospite, non in nome del cinismo giornalistico ma del dovere di non spargere notizie o comunque suggerire ipotesi non controllate, e ovviamente in diretta, perché sennò si fa del documentarismo, non del giornalismo. Mi concesse dopo, a paura passata, di dirgli che mi sembrava la voce gli avesse tremato un poco". E comunque, sempre Ormezzano, trasparente: "Sapeva o no che quando al Giro d’Italia mandava avanti il ‘Processo’, prenotandoci al via o spesso in corsa per salire con lui sul palco a fine tappa, c’era chi fra di noi giornalisti al seguito avrebbe dato un braccio per essere convocato nel cerchio magico della notorietà facile e repente, sapeva o no che giornalisti di grossi giornali sbavavano e schiumavano in attesa di una sua chiamata?".
Strada facendo, Zavoli avvicinò e si avvicinò anche a Marco Pantani. Zavoli di Ravenna, ma riminese di adozione e felliniano di amicizia, Pantani di Cesenatico: respiravano Romagna. Zavoli intervistò Pantani due volte: la prima volta Pantani non si era piaciuto, chiese una seconda possibilità, e la seconda fu quella buona. Zavoli, alla morte di Pantani, avrebbe scritto: "È possibile che nessuno si fosse accorto, diciamo così, che quel ragazzo inebriava anche le montagne? E che, dopo essersi tutti inebriati, toccasse solo a lui saldare quel conto? Certo la morte scioglie ogni dilemma. Ma altro che Pirata: ha pagato tutto e più di tutti. Non capita spesso nei nostri mari".
“Il socialista di Dio”, “Il morale della favola” (quest’ultima definizione ha il copyright di Ormezzano), il fuoriclasse Zavoli usava le parole come tasti di un pianoforte. "Seduti sopra sellini neri e sguscianti come sorci (il corpo ricurvo, i piedi chiusi dentro gabbiette d’acciaio, una vibrazione che sale per le braccia e finisce nelle scarpe) – suo “L’elogio della bicicletta” tratto da “Scrittori della bicicletta” (a cura di Nello Bertellini, Vallecchi) – i corridori consumano ancora la più lunga, la più dura, ma forse la più lieta delle fatiche sportive. Armstrong (non il dopato Lance, ma l’astronautico Neil, ndr) li ha lasciati com’erano, soggetti alla gravità della terra, alle prese con le vecchie condanne dell’orologio, dentro la loro carovana, le tende da fare e disfare ogni giorno, la gente che li aspetta un anno e se li gode un minuto. La folla è tornata a festeggiarli come una volta ed è un segno, si fa per dire, che la Luna è tornata dove era". Viva la bicicletta: "È un modo di accordare la vita con il tempo e lo spazio, è l’andare e lo stare dentro misure ancora, non so per quanto, umane".