Tadej Pogacar (foto LaPresse)

Tonici e cordiali: un altro Giro di storie

Il Giro d'Italia tra forche, streghe e liquori

Gino Cervi

La corsa rosa passa nei luoghi di una delle sconfitte più rovinose dell'esercito romano. Chissà che gli avversari dell’egemone Pogacar, ispirati dalla storia romana, non s’inventino un agguato.

Oggi, dopo il primo giorno di riposo, la decima tappa del Giro porta da Pompei a Cusano Mutri, panoramico borgo arroccato sulle pendici del versante sud dei monti del Matese. Per la precisione il traguardo è posto ai 1.395 m di Bocca della Selva, fino a qualche anno fa piccola stazione sciistica alle falde del monte Mutria, ora dismessa.

Siamo nel cuore del Sannio, regione storica dell’Italia preromana, la cui popolazione, i sanniti, appunto, diedero filo da torcere all’espansione della giovane Roma repubblicana, tra la metà del IV secolo e l’inizio del III a.C. A dire il vero alle legioni romane, al principio del conflitto non andò per niente bene. Nel 321 a.C., alle Forche Caudine, Roma subì una delle più umilianti sconfitte della sua secolare storia: attirato con l’inganno all’interno di una gola profonda e stretta, l’esercito romano si vide sbarrato il cammino e venne sorpreso dai sanniti che lo attaccarono dalle alture circostanti.

Tito Livio descrive così, come un grande romanziere, il momento in cui le legioni romane scoprirono di non avere scampo: "Allora, senza attendere alcun ordine, si arrestano, con gli animi istupiditi e le membra immobilizzate da un insolito torpore, e guardandosi in volto a vicenda, ciascuno sperando che il compagno fosse più capace di pensare e di trovare un consiglio, a lungo rimangono in silenzio".

L’esercito romano sarebbe stato annientato se i consoli – uno di essi, a dire il vero, non portava un nome beneaugurante: Spurio Postumio Albino – non avessero trattato una resa. I Sanniti accettarono ma ottennero che i consoli, e poi gli ufficiali, e quindi a uno a uno i legionari sfilassero, disarmati e seminudi, sotto il giogo di lance nemiche. Fu un ignominiosa sconfitta, ma l’umiliazione subita – terribile per il codice militare dell’epoca – preservò quasi integralmente le armate romane, che si sarebbero prese in seguito una tremenda e definitiva rivincita sugli avversari.

Circa il luogo esatto dell’accaduto la storiografia non è riuscita a identificarlo con certezza, quasi che le fonti ufficiali preferissero rimuovere il trauma cancellandolo dalle mappe geografiche: molti tuttavia ritengono che il vallone angusto in cui furono sorpresi i Romani corrisponda all’attuale Stretta di Arpaia, un valico che mette in comunicazione la valle di Suessola con la valla Caudina, detta anche piana di Montesarchio, sul confine tra il Beneventano e il Casertano.

Il tracciato della tappa di oggi passa proprio nelle vicinanze e chissà che gli avversari dell’egemone Pogacar, ispirati dalla storia romana, non s’inventino un agguato.

Forse però, per fermare la strapotenza cannibalica del campione sloveno ci vorrebbe piuttosto un incantesimo, o una stregoneria.

Le streghe, del resto, a Benevento sono di casa. È un’antica tradizione nata probabilmente in epoca longobarda quando le popolazioni germaniche, prima che venissero cristianizzate, innestarono i loro culti legati agli alberi sulle pratiche pagane ancora presenti nel mondo agreste e montano di questa regione, in particolare a quello di Iside, proveniente dall’antico Egitto e mischiatosi con quello di Diana, dea della caccia, e di Ecate, divinità degli inferi. Il potere ecclesiastico, in particolare a partire dal XIV secolo, perseguì con violenza queste pratiche popolari, accusandole di stregoneria.

Unguento unguento
portami al noce di Benevento
sopra l’acqua e sopra il vento
e sopra ogni altro maltempo.

Lungo il fiume Sabato, che scorre dai monti dell’Irpinia verso Benevento, si narra che sorgesse un mitico noce millenario sotto le cui ampie fronde si svolgevano, di notte, sabba e malefici.

Dal noce, al massimo, noi ricaveremmo volentieri, cogliendoli nella notte di San Giovanni, i malli verdi per fare un buon nocino. L’idea invece di fare un liquore di chiamarlo Strega venne, intorno al 1860, al beneventano Giuseppe Alberti, fondatore dell’omonima azienda di liquori e dolciumi. Ottenuto dalla lavorazione di circa 70 erbe aromatiche, provenienti dal territorio e da tutto il mondo – dalla menta del Sannio alla cannella di Ceylon, dal ginepro appenninico allo zafferano, che conferisce l’inconfondibile colore giallo – il Liquore Strega è tra i più diffusi al mondo.

 

 

Ulteriore popolarità gli venne conferita a partire dal 1947 quando, un discendente del fondatore, Guido Alberti – singolare figura di imprenditore e di attore cinematografico: recitò, tra i molti film, con Fellini in 8½, dove faceva interpretava il produttore Pace, e con Pasolini nel Decameron – insieme ai suoi amici letterati, Goffredo e Maria Bellonci, istituirono il Premio letterario che porta il suo nome e che, da oltre settant’anni a questa parte scatena un irriducibile vena agonistica tra scrittori ed editori italiani.

Arrivare primi nella votazione del Ninfeo di Villa Giulia, a Roma, gran finale del premio Strega, è spesso una lotta senza esclusione di colpi. Se quest’anno qualcuno lo candidasse al Premio, mi sa che Tadej Pogacar vincerebbe anche quello. Anche se qualcuno avrebbe da ridire sulla fin troppo prevedibile trama del suo romanzo.

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