Sergio Pelissier - foto GettyImages

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Chievo Verona, il ritorno

Francesco Gottardi

La Clivense riscatta i vecchi nome e stemma. Intervista a Sergio Pellissier, capitano del Céo che fu, oggi presidente della squadra

È questione di giallo e di blu. E dell’inconfondibile cavaliere – Cangrande della Scala, fu signore di Verona – al centro dello stemma. “Un po’ dispiace: abbiamo messo sul piatto 330mila euro, ne sarebbero bastati 100”, dice al Foglio Sergio Pellissier. “Ma va bene così: questo marchio per noi non ha prezzo”. Mica può bastare la testa, il buonsenso, il portafoglio, per spiegare una storia di rinascita lunga tre anni: Chievo is back. E ad aggiudicarselo è la Clivense, emersa dalle ceneri del vecchio club. Con il fu capitano Pellissier presidente del nuovo. “Lo dovevamo a tutti coloro che hanno creduto in noi. Per i nostri 800 soci è una favola: per troppo tempo sono stati presi in giro, ora i proprietari sono loro. E questo vale una promozione”.
 

La Clivense ha chiuso a metà classifica il campionato di Serie D. La partita più importante si è giocata venerdì 10 maggio davanti ai curatori fallimentari. “Quando sei lì i sentimenti si sentono”, ammette Pellissier. “Anche perché all’asta abbiamo trovato una delegazione di Luca Campedelli”. Lo storico presidente del Chievo. “Non ci aspettavamo di incontrare certi volti: un po’ di tensione c’è stata”. Pellissier e Campedelli si contendono il marchio da anni, ciascuno convinto di incarnare i valori del vecchio club. Da che parte si siano schierati i tifosi è presto detto. Le prime due aste erano andate a vuoto. La terza è stata quella buona. Ma l’offerta in busta chiusa non lasciava spazio ai bluff. “Non volevamo correre rischi: c’era in ballo la passione di una comunità intera. E le persone al nostro fianco non erano traditrici”, soltanto perché tifavano un nome diverso, su casacca biancoblù. “Al contrario, hanno seguito chi ama il Chievo fino a riportarlo a casa. In tanti ora saliranno sul carro. E saranno i benvenuti: la morale di quest’avventura è crederci sempre, coltivare degli ideali e lottare per realizzarli. Che vita sarebbe, se no?”. La Clivense ha già saldato il conto che completa l’acquisizione del marchio Chievo. Si tornerà a chiamare così? “Valuteremo insieme ai soci”, risponde Pellissier. “E’ giusto che ogni decisione venga messa ai voti. La cosa importante è aver centrato l’obiettivo: siamo padroni del nostro destino”. Con un nome o con l’altro, inizierà l’assalto al professionismo. “L’idea resta vincere e crescere, senza mai fare il passo più lungo della gamba. Quest’asta vinta ci fa recuperare quel che il campo non ci aveva dato nella stagione appena conclusa”. Presto si programmerà la prossima. “Valuteremo budget, spese, investimenti. Chiunque sarà al comando dovrà continuare a fare l’interesse della società: serve una crescita sostenibile. Lavorando bene i risultati arrivano, ma ridare gioia e identità a chi l’aveva persa è altrettanto importante”.

Sprazzi di quel Céo, come si dice a Verona, da qualche parte esistono ancora. “Bologna e Atalanta sono la dimostrazione che con società sane si possono raggiungere grandi traguardi senza spese folli e giocatori di punta”. Non fa due esempi a caso, l’ex capitano: si tratta delle due piazze rilanciate da Giovanni Sartori, il direttore sportivo che dal nulla allestì il Chievo della Serie A. “Sartori potrà anche essere odiato perché combatte sul singolo euro anziché cedere alle richieste dei giocatori, ma questo significa anteporre gli interessi societari a quelli personali. È così che si diventa numeri uno”. Sempre più rari, oggi. “Anche ai vertici dei club. Penso ai Moratti, ai Sensi, al Campedelli dei primi anni: ci mancano quei presidenti solidi e appassionati, pronti a reinvestire tutto per amor dei colori”. Che sia Ronaldo, Batistuta. O il marchio che vale un paradiso perduto.