Anna Maria Ortese

Scrittori in Giro

L'Italia del Giro d'Italia di Anna Maria Ortese

Marco Pastonesi

La scrittrice fu la prima (ma non sarebbe stata certo l’unica) donna ad accompagnare la corsa rosa. Il Tour de France aveva accolto la prima inviata l’ultima tappa, la Dunkerque-Parigi, dell’edizione 1913: era Colette, scriveva per il quotidiano “Le Matin”

Il 18 maggio 1955 era a Genova. Mancò l’appuntamento con il pullman, quello della Chlorodont, marca di dentifricio e sponsor di una squadra. Rimase sulla strada a guardar passare le macchine dei giornalisti. Finché se ne fermò una e ne scese un uomo con un berrettino bianco. Era Vasco Pratolini, lo scrittore, ingaggiato dal “Nuovo Corriere di Firenze”, già autore di “Cronache di poveri amanti”, per seguire quel Giro d’Italia.

Lui, sorpreso: “Ma lei cosa fa qui?”.
Lei, schietta: “Il Giro”.
Lui, confuso: “Cosa il Giro?”.
Lei, chiara: “Vorrei partire col Giro”.
Lui, disponibile: “Per andare dove?”.
Lei, vaga: “In Italia, col Giro”.
Lui, curioso: “E scrivere anche?”.
Lei, ambigua: “Anche”.
Lui, premuroso: “Guardi che non si vede niente”.
Lei, decisa: “Lo so”.
Lui, sorridente: “Può salire”.

Anna Maria Ortese salì. Era una Bedford, “vecchia e stanca”, “col suo motore asmatico”, “la carrozzeria blu, bianca e rossa come la bandiera francese”. Per il settimanale “L’Europeo” avrebbe scritto tre pezzi, poi inclusi in “La lente scura – Racconti di viaggio”, pubblicato da Marcos y Marco nel 1991 e ripubblicato da Adelphi nel 2004, nonché in un numero monografico dello stesso “L’Europeo” nel maggio 2009. Correttrice di bozze per necessità, giornalista per curiosità e viaggi, scrittrice per indole e vocazione, Ortese avrebbe visto poco Giro ma molta, moltissima Italia: “Tutti quei cieli, quelle folle, e il pericolo, la gioia o l’ira”, “Aggrappati al sedile, nervosamente, ci guardavamo intorno. L’Italia cominciava a fuggire”, “L’Italia davanti a noi. E un muro sottile e variamente colorato che saliva come una serpe per quei monti verdi, fino a quel cielo, e si perdeva nei boschi dove i boschi cominciavano, e riappariva lungo il mare dove le spiagge balenavano, e diventava folla acclamante nei paesi (folla e banda e bandiere), e ritornava estatica siepe lungo le strade, in fondo ai boschi e alle valli inondate dalla primavera”. E ancora: “Muro di donne, di ragazzi, di uomini, contadini e borghesi, artigiani e signori, marinai, preti, maestri e maestre di scuola con la scolaresca al completo”. E infine: “Vedemmo un domenicano abbagliante”.

Se Alfonsina Strada era stata la prima (e unica) donna a correre il Giro, Anna Maria Ortese fu la prima (ma non sarebbe stata certo l’unica) donna ad accompagnare il Giro, a respirarlo, abitarlo, esplorarlo, e a scriverne. Il Tour de France, nato sei anni prima del Giro (nel 1903), aveva accolto la prima inviata l’ultima tappa, la Dunkerque-Parigi, dell’edizione 1913: era Colette, scriveva per il quotidiano “Le Matin”, il suo articolo avrebbe aperto la prima pagina, tre colonne su sei.

Ortese scopre, innanzitutto, la passione: “Ricordiamo certe facce pallide e impazzite di dodicenni, gli occhi bruciati dall’attesa, e le mani ansiose di quell’età aprirsi un varco nella folla, buttarsi avanti con un nome, che era Coppi, o Fiorenzo Magni, o Gastone Nencini, e ritornare nell’ombra, le mani al petto, stupiti. Ricordiamo donne vecchie piangere e ridere come guardando figli. Ragazze portarsi avanti, e splendere amorosamente nella fronte e negli occhi, come alla vista del proprio uomo. E uomini di ogni classe guardare ai corridori, quando apparivano, come a fortunati e cari fratelli. E c’era tutto in quegli occhi, mentre le macchine correvano sotto il sole, ogni condizione umana, ogni desiderio, e anche stanchezze formidabili e sogni finiti per sempre”. Nelle sue parole ingenuità e genuinità.

Ortese voleva conoscere i corridori. Una mattina, a Scanno, le fu procurato un incontro con Nencini. Ne cavò monosillabi. “Un corridore appartiene in genere a una classe modesta – lo giustificò –, è contadino o operaio, esce da piccole città o paesi, è timido, chiuso, anche se parla forte, fortissimo, anzi, o ride. Ha un mondo da conquistare, e non ama discorrere con quelli che, a parer suo, lo hanno già conquistato”. O forse il ciclismo era ancora uno sport maschile e maschilista, dove le donne erano considerate estranee e pericolose. Henri Desgrange, campione di ciclismo, poi fondatore e direttore del Tour de France, aveva scritto: “La donna assomiglia alla stufa, utile d’inverno, ingombrante d’estate”. Il 1955 era l’anno in cui Giulia Occhini, ribattezzata Dama Bianca, scontato un mese di carcere ad Alessandria e un periodo di domicilio coatto ad Ancona per adulterio, aveva sposato Coppi in Messico e proprio la vigilia della partenza del Giro (dove Fausto correva, infine secondo dietro a Magni e davanti a Nencini) aveva partorito Faustino a Buenos Aires. Ma anche il giornalismo era maschile e maschilista: nei suoi pezzi Ortese citò Pratolini, Pratolini non citò mai lei.

Ortese, 40 anni (la stessa età di Colette al Tour), attraente, elegante, voleva conoscere i corridori, e lo chiedeva ad allenatori, meccanici e massaggiatori, che non trattenevano sorrisi ironici e imbarazzati. Tant’è che non ci riuscì. Ma dei corridori, se non s’innamorò, ci fece innamorare: “Molti corridori, da quando il Giro è cominciato, si sono ritirati. Altri si ritireranno di fronte alla montagna. I più vanno avanti. Vogliono lasciarsi indietro, come un carcere, la loro classe, le pianure della povertà, dell’anonimato, dell’ignoranza, del male. Il libro chiuso, il pane duro”. Il libro chiuso, il pane duro: strepitoso. “Salire, salire. Alte come la vita, rosse, incantate, terribili, li aspettano da venti giorni, in mezzo alle nuvole, le Dolomiti”.

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