Scrittori in Giro
Il Giro d'Italia annusato e raccontato da Dino Buzzati
Era il 1949 e lo scrittore bellunese aveva quasi 43 anni quando salì sull’auto del “Corriere” e si unì alla carovana dei giornalisti e dei “suiveurs” al seguito della Corsa rosa
Da prima della partenza a dopo l’arrivo. Era il Giro d’Italia del 1949. La storia, la letteratura, ma anche la storia della letteratura e la letteratura della storia ricordano – quasi a memoria – l’attacco del pezzo scritto a Pinerolo il 10 giugno notte dal nostro inviato speciale Dino Buzzati sul “Corriere della Sera” dopo le due edizioni affrescate da Indro Montanelli: “Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo – e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire, quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille…”.
Buzzati aveva quasi 43 anni quando salì sull’auto del “Corriere” e si unì alla carovana dei giornalisti e dei “suiveurs” al seguito della Corsa rosa. Si era laureato in Giurisprudenza, aveva scritto “Il deserto dei Tartari”, era stato inviato di guerra per il “Corriere”, per il “Corriere” aveva firmato l’editoriale di prima pagina della Liberazione. Era giornalista e scrittore, penna e firma, nonché alpinista, sarebbe diventato anche drammaturgo e commediografo, pittore e fumettista, tutto. Il Giro è un’occasione, un’opportunità, centinaia di fogli bianchi su cui trattenere storie e di fogli di taccuino su cui sfogare disegni.
Il primo, da bordo del Saturnia in navigazione, di notte: “Apriamo la porta della cabina N.22, seconda classe turistica. Buio, e il sussurro musicale di un ventilatore. Qui ci sono Lucien Buysse, Roger Missine, Jef Van der Helst, Giuseppe Cerami, corridori ciclisti. Dormono”, “Li porta, col suo sommesso ronfare di motori, attraverso la notte del Tirreno, il bastimento stupendo di lumi che i pescatori, dalle oro piccole barche, devono scorgere anche da lontanissimo come un miraggio e benché sappiano cos’è fanno segno e si chiamano l’un l’altro quasi stentando a credere”, “Domani si incontrerà la Strada, la grande nemica, lunga e diritta a perdifiato che finisce in niente all’orizzonte o tortuosa ed erta come rupe che leva il fiato alla sola vista, fatta di sassi, o di polvere, o di fango, o di bitume, o di sconvolte buche: lo sterminato nastro che bisognerà inghiottire a poco a poco”, “Domani ci sarà il sudore, i crampi, le ginocchia che dolgono, il cuore che viene in gola, l’imbastitura, la sete, le maledizioni, le forature, il tracollo dell’animo e del corpo, quel senso di amaro in bocca quando gli altri, i bravi, fuggono via, sparendo in un turbine di evviva. Ma stanotte, nella cuccetta morbida, i muscoli si distendono placati: sono giovani, elastici, stanotte, straordinari, irresistibili, gonfi di vittorie”.
Un libro curato da Claudio Marabini raccoglie i 25 pezzi scritti da Buzzati (più tre cronache del collega Ciro Verratti), s’intitola “Dino Buzzati al Giro d’Italia”, pubblicato dalla Mondadori nel 1981 e ristampato negli Oscar. Le pagine sono ispiratissime. Buzzati pedala fra con Bartali e Coppi, con i fratelli Rossello, e con Pasotti, e con Biagioni, e con De Santi, e anche con Garibaldi, e sempre dentro di sé, nei tornanti della memoria: “Ho corso anch’io infine da ragazzo a cavallo di una bicicletta a cui avevo tolto i parafanghi perché assomigliasse un poco a quelle dei campioni; e mi ricordo che una sera tallonai per ben due interi giri del Parco la ruota, giuro, di Alfonsina Strada, che alla fine mi fece scoppiare lasciandomi scornato; tanto più che, lei saettando via, fui abbrancato da un vigile urbano per la multa (eccesso di velocità: e a quei tempi ammontava alla enormità di lire venti)”.
Il Giro d’Italia è anche una corsa di biciclette. Buzzati lo annusa, lo sente, lo comprende, lo sa, lo scrive. Quando i corridori arrivano a Trieste, ancora territorio libero ma sotto amministrazione militare alleata, scrive: “Ho visto uomini fatti che si asciugavano gli occhi col dorso della mano e si capiva che attraverso il velo delle lacrime non vedevano più niente se non delle confuse macchie che fuggivano dinanzi a un glorioso barbaglio di sole. Ho visto giovanotti in motocicletta passare e ripassare, tenendo alzati al vento giganteschi tricolori; e chi sa che fatica facevano. Ho visto i ‘cerini’, cioè i poliziotti civili in divisa blu scura tipo inglese, e i ‘berretti rossi’ britannici, li ho visti sbalorditi guardarsi intorno senza capire. Ho visto una vecchia signora che ci salutava da un balcone come se fossimo figli suoi…”.
Immaginifico, infinito, profetico Buzzati: “No, non mollare, bicicletta. Noi allora saremo probabilmente morti e sepolti, Coppi sarà uno scarno e tremulo nonnino ignoto alle generazioni nuove, altri nomi verranno urlati dalle folle”, “Se tu capitolassi, non solo un periodo dello sport, un capitolo del costume umano sarà finito, ma si restringerà ancor più il superstite dominio della illusione, dove trovano respiro i cuori semplici”, “Tu non badarci, bicicletta. Vola, tu, con le tue piccole energie, per monti e valli, suda, fatica e soffri”.
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