Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA
L'esonero di Allegri e la parabola del mendicante
Storie di campo: tensioni e abbracci riconcilianti. La finale di Coppa Italia e il destino del tecnico livornese
Qualche giorno fa un mendicante seduto per terra con davanti una piccola scatola di cartone mi ha detto, mentre passavo con a fianco un’altra persona a me sconosciuta, “che sia una bella giornata, signore”. Io non ho replicato, ma l’altra persona ha risposto gentilmente e con tono sincero, “anche a lei, signore”. Mi sono sentito in difficoltà, colpito dalla mia stessa indifferenza a contrasto con l’attenzione e la sensibilità dimostrata dall’uomo che camminava accanto a me. Questo semplice episodio di vita quotidiana mi è tornato in mente scrivendo della finale di Coppa Italia vinta dalla Juventus sull’Atalanta con la conseguente sceneggiata di Allegri che ha portato la società alla estrema decisione di esonerarlo.
La tensione sul campo, durante e dopo la partita, mi ha convinto che lo sport, ad alti livelli, non ha pietà, non conosce misure e neanche troppo rispetto. Nessuno, nell’atto di superare un avversario, saluta il mendicante (tantomeno Allegri). Tutto è eccessivo dentro un confronto così importante: la reazione ad un fallo subito, il comportamento del pubblico con i suoi cori irriverenti, le proteste arbitrali, gli interventi a gamba tesa. Allegri aveva un diavolo in sé, sputava fuoco contro Maresca, l’arbitro che si mostrava inflessibile come i suoi capelli perfettamente ordinati e immobili. Mostrava i denti, il livornese, come mai gli avevo visto fare, accompagnando il ghigno a gesti disordinati e rapidi, con l’energia di un lottatore, e la rabbia di un animale in gabbia. Allegri si giocava parecchia reputazione dopo tante critiche ricevute, ben sapendo che questa dovesse essere l’ultima occasione per riscattarsi prima di lasciare la panchina a qualcun altro. Brevi cenni di cronaca, giusto per ricordare. A fine partita ha ritardato a tornare sul campo (era stato espulso), poi una volta riemerso dagli spogliatoi, ha cominciato a girare come un leone intorno alla sua rabbia, senza che qualcuno lo potesse fermare. Ha scacciato Giuntoli dalla sua vista per non doverlo mangiare, così come il leone fa con le sue prede, e poi (ma questo è successo fuori dal campo) ha pesantemente e volgarmente apostrofato un giornalista reo di avergli scritto contro per tutta la stagione. Non c’è niente di più umiliante per un uomo, anche di fronte alla ipotetica ragione, che reagire a testa bassa con offese becere dal tono minaccioso (ma non c’è niente di più nobile per un uomo che chiedere scusa, come lo stesso Allegri ha fatto due giorni dopo l’accaduto).
Dall’altra parte Gasperini camminava a testa bassa pienamente convinto di aver perduto una partita giusta, giocata peggio di come avrebbe dovuto ma solo per merito degli avversari, più convinti, più potenti, più determinati e soprattutto più affamati. Perché la Juventus non vinceva da troppo tempo e l’astinenza l’aveva resa, almeno nella notte romana, cattivissima e impenetrabile. Di lì a poco, con l’avvicinarsi della premiazione, piano piano è scemata la rabbia e si è tornati ad una vita normale. I giocatori si abbracciavano sul campo, ed è erano delle fazioni opposte, il pubblico atalantino lacrimava, di una delusione sommessa e fragile. Landucci, il vice di Allegri, provava a convincere il suo capo che il mondo era migliore di come gli era sembrato qualche minuto prima, quando il livornese schiumava di rabbia. Tutto tornava al suo posto, nella normalità. Il quadro della riconciliazione tra le parti si consumava in un abbraccio, quello tra lo stesso Allegri e Gasperini. C’era, in quella stretta, l’essenza dello sport, dove si riconosce la bravura dell’altro e si ripone l’ascia della contesa, guardando alla vita per quello che essa ci riserva. Ci sono i vinti e i vincitori, i buoni e i cattivi, i servi e i padroni. E poi ci sono i mendicanti che salutano, a cui dovremmo donare qualche spicciolo, ricordandoci di rispondere con il sorriso dei fortunati, “buona giornata a lei”.