Il Foglio sportivo
Il ds che fa le squadre con un pennello
Così Christian Botturi ha fatto rinascere il Mantova chiedendo una sola cosa al suo presidente
Il Mantova è retrocesso in Serie D. Il presidente Piccoli deve rifondare e chiama come direttore sportivo Christian Botturi, quello che ha portato la Pro Sesto (quest’anno retrocessa) ai playoff di Serie C. I due si danno appuntamento. “Mi devi portare un pennello”, gli dice Botturi. “Un pennello? Ma io sono a Milano in corso Buenos Aires, dove lo trovo un pennello?.” E Botturi: “Pres, mi spiace, ma se vuole incontrarmi ho bisogno di un pennello”. Piccoli va a comprarlo e il ds ce l’ha mostrato nell’intervista fatta a Cronache di spogliatoio.
Era una metafora, ma fino a un certo punto. Botturi ridipinge lo spogliatoio e lo stadio, fa aggiungere finestre chiuse da anni perché serve un ambiente luminoso, che spinga all’ottimismo. Ripulisce spazi inutilizzati del centro sportivo. Vuole colorare Mantova e far sì che tutta Italia parli di loro. Il club viene riammesso in C. Come prima mossa Botturi sceglie Davide Possanzini, ex vice di De Zerbi a Sassuolo. I due lavorano fianco a fianco per rifondare la squadra. Incontrano personalmente ogni calciatore perché “non conta solo l’aspetto tecnico e calcistico, conta l’anima della persona, che ogni volta porta al campo i suoi pensieri, i suoi travagli, il suo ottimismo”. Con un quarto del budget di colossi come Triestina, Padova, Vicenza mettono insieme la squadra che dominerà il girone A, ottenendo la promozione in B.
Come? Attraverso il bel gioco. “Io sono un attaccante – racconta Possanzini – mi piace avere la palla e dominare il possesso”. Quindi si può fare anche in categorie inferiori? Possiamo sfatare questo mito? Sì. A una condizione, che ci sia un intento tra ds, società e allenatore. Quel triumvirato magico che è sempre la base del successo nel calcio. Abbiamo visto anche in Serie A quest’anno. Le società che hanno sottoperformato spesso hanno sentito la mancanza di un direttore carismatico (vedi: Lazio, Napoli). Ma torniamo a Mantova. Cosa significa difendere il proprio allenatore? “Ci sono state un paio di partite in cui abbiamo perso proprio per via dell’uscita dal basso, per via del mio credo – dice Possanzini – ed è lì che la società è stata con me e questo il calciatore lo percepisce”.
Ognuno deve fare il suo mestiere, sembra come dire che è meglio il sole della pioggia, ma non sempre è così nel calcio. L’allenatore oggi è un manager a 360 gradi. Deve capire la nuova generazione che vive col telefono in mano, non prenderne le distanze. Deve motivare i ragazzi. “Ho fatto un paio di video emozionali. Per esempio, alla prima partita ho raccolto dei videomessaggi di fidanzate, mogli, genitori e li ho mostrati ai miei prima di entrare in campo. Nel girone di ritorno ho scelto una canzone che mi piaceva e ci ho montato sopra tutti i gol dell’andata.” Possanzini racconta di puntare molto sull’autenticità, che spesso non si prepara i discorsi ma entra nello spogliatoio e dice quello che sente. Anche qui, il calciatore lo percepisce.
E mai lasciare dei non detti. Due destini così opposti. Possanzini ammirava le punizioni di Pirlo in allenamento, ha segnato a San Siro contro l’Inter e ha lavorato con De Zerbi. Botturi ha giocato al massimo in Eccellenza, poi ha fatto tutta la gavetta, iniziando come segretario di un piccolo club. Quando Botturi tornava da Sesto spesso si fermava di nascosto, tra i cespugli, a vedere gli allenamenti di Possanzini al Brescia ed era rimasto colpito dalla sua interazione con i giocatori, con gli uomini. I due si sono trovati e hanno dipinto una parete grande, gigante. Come diceva quel famoso spot degli anni ‘90, per dipingere una grande parete, ci vuole un grande pennello.