Un’immagine della 19esima tappa del Giro d’Italia 2023. Le Dolomiti saranno il fondale della 16esima e della 17esima tappa del Giro 2024 (foto di Tim de Waele per Getty Images)

in salita

Giro d'Italia, tutto il rosa delle Dolomiti

Giovanni Battistuzzi

Sono i luoghi che appartengono di più al Giro, montagne contro il pensiero dominante 

Èquando dal fondovalle si alza lo sguardo a osservare le decine e decine di tonalità di verde che si scontrano e si incontrano tra le chiome di alberi e accenni di pascoli, su verso gli arbusti e poi ancora più in su, lì dove spariscono, lasciando spazio alle rocce che si capisce perché quelli sono i luoghi nei quali il Giro d’Italia raggiunge il suo massimo splendore. Soprattutto in quei momenti quando i raggi solari incontrano con l’intensità e inclinazione giusta le rocce, tingendole del rosa delle maglie rosa che furono, si capisce che lì, e non altrove, è il luogo nel quale il Giro d’Italia trova la sua giusta collocazione. Sotto le guglie e le cime delle Dolomiti, nei fondivalle e poi su a muovere i pedali lungo le curve e i tornanti dei passi, il Giro d’Italia incontra la sua dimensione migliore, i luoghi che più e meglio gli appartengono. Tanto che sembra impossibile, almeno ora, che ci fossero stati anni nei quali le Dolomiti erano un altrove ciclistico, un territorio totalmente inesplorato. 

Fu il 26 maggio del 1937, venticinque edizioni dopo la prima, che i corridori del Giro d’Italia incontrarono sotto le loro ruote la polvere, la ghiaia e i sassi del Passo Rolle. Il battesimo di una nuova dimensione. E non ci volle molto, qualche chilometro, poche parole alla radio, alcune righe appena stampate sui giornali, per farla diventare una sorta di nuova religione ciclistica. Fu in quel giorno che le Dolomiti entrarono davvero nella geografia dell’Italia. Fu Gino Bartali il primo corridore a raggiungere la cima di un passo dolomitico in sella a una bicicletta in un Giro d’Italia

Orio Vergari sul Corriere della Sera raccontò così quel battesimo: “Schiere infinite di bambini biondi e rosa venuti fuori da tutte le scuole salutavano gli arrivanti con grida argentine. Nell'aria c'era un odore intenso di fieni alpestri profumati, di fiori segreti, e quell'odore di legni segati che si mescola, così bene all'aria di montagna. Era un clima domenicale, un clima di giovinezza. Ma nessuno dei corridori era allegro. La salita per il Passo di Rolle era incominciata e dopo tre o quattro chilometri in testa non eran rimasti che Valetti, Mollo, Generali, Bartali, Molinar, Cecchi, Rogora, Montesi, Simonini, Introzzi, Barrai e Canavesi. Gli altri s'eran già perduti più sotto tra le ombre della pineta”. 

Da quel 26 maggio del 1937 le Dolomiti sono state una presenza fissa al Giro d’Italia. È cambiato tutto da quel giorno e decine e decine di volte. Quelle salite però hanno resistito a tutti i cambiamenti che si sono susseguiti in Italia e nel ciclismo. Sono nemmeno più le salite più dure, com’erano un tempo. Allenamenti, tecnologia, rapporti, novità le hanno normalizzate, le hanno rese accessibili a tanti. Eppure sopravvive in loro qualcosa di unico. Un mescolio di alte quote, ossigeno rarefatto e quel loro unico susseguirsi rapido e senza pausa, un passo dopo l’altro, capaci di renderle ancora oggi un mondo a parte, una resistenza all’imperante status quo che valuta ogni ascesa solo in base al numero che precede il per cento della casella che indica la pendenza massima, quasi non esistesse altro che questo. Le Dolomiti sono ancora lì a combattere il pensiero dominante, come la prima volta, quando i più erano convinti che non fosse il caso di far passare i corridori in quei luoghi dimenticati da Dio tra Veneto e Trentino. Si sbagliavano. Per fortuna Armando Cougnet, il primo patron del Giro d’Italia, un giorno d’autunno del 1936 decise di smetterla di ascoltare quei reazionari: le Dolomiti non potevano più essere un altrove, dovevano entrare nella geografia del Giro d’Italia e quindi degli italiani.

I corridori in questo Giro d’Italia incontreranno le Dolomiti nel corso della sedicesima tappa, martedì 21 maggio. Scaleranno prima il Passo Pinei, incontrato per la prima volta nell’edizione del 1991, e poi il Monte Pana, pochi chilometri – ma parecchio duri – più in su di Santa Cristina in Val Gardena. Un piccolo assaggio rispetto a ciò che gli attende il giorno dopo, mercoledì 22 maggio: l’ascesa al Passo Sella, poi, uno in fila all’altro il Passo Rolle, il Passo Gobbera, prima della doppia ascesa al Passo Brocon. Ed è un bene, quasi un premio alla carriera, che il Brocon possa finalmente avere una posizione di prestigio all’interno di una tappa, dopo tanti anni nei quali era stato soltanto un’ascesa di passaggio, un intermezzo buono a scaldare le gambe per passi dal nome più altisonante. E sì che Charly Gaul aveva avvisato tutti, e parecchi anni fa: “Una salita corta ma infame”, perché capace di “stroncarti senza darlo a vedere”. 

Il ciclismo è sport di strade, fondivalle e passi, di corridori tosti e duri come le rocce, di corpi e visi abbronzati a macchie, di visi che nonostante il sole, in salita si spengono al diminuire delle energie, diventano pallidi come quei monti che li dominano dall’alto, a volte rosa come le ambizioni che muovono i corridori, pedalata dopo pedalata su quelle strade di montagna.  

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