Indro Montanelli (foto LaPresse)

Scrittori in Giro

Il Giro d'Italia secondo Indro Montanelli

Marco Pastonesi

Il giornalista, in carovana nel 1947 4 nel 1948, intuì che la corsa rosa era una chiave di lettura dell’Italia, e i corridori una chiave di interpretazione degli italiani

Partecipò al Giro d’Italia nel 1947 e nel 1948, inviato del “Corriere della Sera”. Il suo compito era quello del pezzo di colore, fra personaggi e storie, incontri e commenti. Ci entrò con curiosità: “Il mondo dei corridori di bicicletta è misterioso come quello dei cavalli”. Ne uscì con entusiasmo: “Il Giro d’Italia ha uno strano potere, quello di trasformare in domenica ogni giorno della settimana”. Anzi, con consapevolezza e già nostalgia: “Chi non ha conosciuto tutto questo, chi non ha conosciuto il Giro è come chi non ha conosciuto suo nonno, De Amicis e la piccola vedetta lombarda. Nessuno è più orfano di lui”.

Indro Montanelli aveva 47 anni quando esordì alla corsa organizzata dalla “Gazzetta dello Sport”. Si capisce che si divertì da matti. Prima osservando: “Come i bersaglieri quando smettono di correre, così i ciclisti, quando cessano di pedalare, ingrassano”. Poi ascoltando: “Carlo V usava lo spagnolo per parlare con Dio, il francese per parlare coi ministri, l’italiano per parlare con le donne, il tedesco per parlare coi soldati e il cecoslovacco per parlare col diavolo. Se fosse vissuto più a lungo avrebbe dovuto imparare una sesta lingua per parlare coi corridori in bicicletta: il milanese. Il Giro d’Italia parla milanese, anche se poi, a vincere, è qualche toscano o qualche romagnolo”. Adesso è tutta un’altra storia: si parla inglese, a correre sono eritrei e gallesi, a vincere ecuadoregni e sloveni, i dialetti italiani non esistono quasi più.

Montanelli fu spedito per raccontare l’Italia di Bartali e Coppi. Lui lo fece cominciando proprio da loro, mischiando politica e geografia. Nella loro contrapposizione si ispirò: “La forza di Bartali era evidente nelle gambe muscolose e nella mascella dura. Ma quella di Coppi dove si nasconde? Coppi è quasi un rachitico. Soltanto il torace ha sviluppato e largo come quello di un ‘boxeur’, ma le sue braccia sono esili, la vita sottile, il profilo aguzzo di una faina. La forza di Coppi è la sua fragilità. Coppi è un’antilope e ne condivide tutte le bizze”. Però Bartali – saranno le stesse radici toscane – sembrava solleticarlo e sollecitarlo di più: “E’ veramente un santo Bartali? Stamane egli transitava per un villaggio, un po’ staccato dagli altri, quando uno spettatore, convinto di fargli piacere, gli ha lanciato sul muso un secchio d’acqua. Con un ‘accidenti a te!’ di marca squisitamente toscana, ma non altrettanto cristiana, Gino ha fatto cilecca con la testa e l’acqua è andata a investire in pieno un maresciallo dei carabinieri e un monsignore che, tutti intenti ad applaudirlo, la subirono senza batter ciglio. Bartali vide e più tardi disse: ‘Il fatto che l’acqua sia caduta sul monsignore mi ha tolto la gioia che mi aveva dato quella caduta sul carabiniere’. Bartali è fiorentino. La sua santità è fatta non meno di riverenza verso Dio che di odio verso gli uomini”.

Gli articoli di Montanelli sono raccolti in “Indro al Giro” (Rizzoli, a cura di Andrea Schianchi). Allora, ma anche ora, il materiale umano è ricchissimo, forse inesauribile. Fin da subito fu rapito dall’umanità – appunto – dei gregari: “I corridori sono come Anteo: il contatto con la loro terra gli dà forza”. A lui il contatto con la corsa regalò leggerezza: “Il numero 65 è Gino Fondi: e questo nome, evidentemente, non desta preoccupazioni”. E onestà: “Non chiedetemi chi è Logli; anch’io ne ho sentito parlare oggi per la prima volta e forse non mi capiterà di nominarlo mai più”. E convinzione: “Zanazzi è il Montgomery della bicicletta. Era staccato di circa due minuti quando iniziò l’inseguimento. Mezz’ora dopo aveva raggiunto il gruppo di testa”, “Ma Zanazzi aveva portato un cero a Sant’Ambrogio; e Sant’Ambrogio lo ricompensò mandando una foratura anche a Fondi”, “Era solo davanti a una enorme folla che gli batteva le mani. Aveva con sé la gioventù, le gomme intatte e Sant’Ambrogio. Se non vinceva con tutta questa roba, quando mai avrebbe potuto vincere?”.

Montanelli intuì che il Giro era una chiave di lettura dell’Italia, e i corridori una chiave di interpretazione degli italiani. A proposito di Toni Bevilacqua, che “somiglia a un cavallo e del cavallo ha il labbro inferiore pendulo sul petto, gli scarti e gli impeti. Un tempo faceva il maestro elementare, poi trovò più conveniente darsi alla bicicletta, e ci crediamo, dati gli stipendi che il patrio governo distribuisce a coloro che hanno il trascurabile compito di formare le anime e i cervelli dei nostri figli”.

Non sempre la sua ironia fu compresa e gradita. “Nel 1997 – mi raccontava Ubaldo Pugnaloni, che fu anche gregario di Fausto Coppi – Indro Montanelli ha scritto sul ‘Corriere della Sera’ che ‘tanti anni orsono un ciclista, certo Pugnaloni, si mise in buona luce in una gara sportiva’. Ricordo che Guareschi commentò: ‘Con quel nome non andrà molto lontano’. Ho risposto a Montanelli ringraziando di non aver menzionato che mi chiamo anche Ubaldo come ulteriore peggiorativo. Poi dissi di Cipollini, Cazzulani, Chiappa… Non mi rispose. Forse se l’è avuta a male, perché ho aggiunto che anche Indro, come nome, non è un granché”.

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