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i conti del pallone

Il calcio tra fondi, americani e arabi. Cosa insegna l'Inter 

Mariarosaria Marchesano

Il declino degli investitori asiatici e la Serie A, povera ma promettente, come nuova terra di conquista 

Milano. È scaduto alle 17 di ieri pomeriggio il termine per pagare il debito di 380 milioni a Oaktree e a meno di sorprese dell’ultim’ora, la proprietà dell’Inter è passata in mani americane, con una modalità che ricorda molto la storia del Milan con il fondo Elliott. “È possibile che in Italia si vedranno in futuro altre operazioni così, perché il nostro è il paese in cui il calcio è più indebitato, meno finanziato dalle banche e dove la generazione dei ricavi è inferiore alla media europea”, dice al Foglio Federico Mussi, partner di Pwc e autore del report annuale che la società di consulenza realizza con la Figc. “Può sembrare un paradosso ma alcuni tipi di operatori finanziari vedono nel campionato tricolore un’opportunità di investimento proprio perché ci sono ampi margini di miglioramento nella gestione economica. Non è un caso che quelle che stanno scendendo in campo nel nostro paese sono le divisioni di debito dei grandi fondi di private equity americani”.

L’affare per Oaktree, infatti, è stato quello di erogare un prestito al patron cinese dell’Inter, Steven Zhang, di 280 milioni al tasso del 12 per cento. In tre anni sono diventati 380 i milioni da restituire e in più il club nerazzurro ha anche emesso un prestito obbligazionario di 400 milioni che scade nel 2027. Insomma sarà necessaria una ristrutturazione, dopo di che è prevedibile che Oaktree cederà a terzi l’Inter così come ha fatto Elliott che ha rivenduto il Milan a un altro fondo americano, RedBird.

Cosa rende le società italiane più vulnerabili? “Mentre i costi sono allineati alla media europea, sul fronte dei ricavi esiste un forte gap con gli altri campionati di Serie A ed è in questo gap che i fondi esteri intravedono la possibilità di creare valore. Basta guardare agli introiti dei diritti tv che in Italia sono, per esempio, un quarto rispetto all’Inghilterra e rappresentano la metà circa della Spagna. In più solo cinque club hanno anche la proprietà degli stadi, modello che all’estero è molto diffuso perché è fondamentale per rendere questo business profittevole per i privati”.

Insomma, il calcio italiano agli occhi degli investitori esteri si presenta come uno dei più brillanti del mondo sul campo ma come un “destressed asset” e questo a causa di problemi strutturali che, però, se rimossi faranno lievitare le quotazioni delle società. “Il fenomeno del private equity nel calcio, comunque, va inquadrato a livello europeo dove si vedono gli americani avanzare negli assetti proprietari delle società, i cinesi arretrare e gli arabi sempre più interessati ma per ora in minoranza”. In effetti, proprio il caso Inter è la dimostrazione di come gli scenari economici e geopolitici mondiali siano destinati influenzare gli assetti proprietari del pallone. Basti pensare che Zhang non può più lasciare la Cina perché inseguito dalla China Construction Bank – istituto di credito controllato direttamente dalla Repubblica popolare – alla quale deve oltre 300 milioni dopo che è stato coinvolto dal tracollo immobiliare avvenuto nel paese. Nel complesso, i capitali del Far East che avevano puntato sul calcio del vecchio continente per promuovere l’immagine cinese si stanno ritraendo complice il rallentamento economico del paese, mentre i fondi di private equity americani hanno accumulato ingenti quantità di liquidità durante il decennio degli elevati tassi d’interesse, come conferma una recente indagine di Morningstar Pitchbook. “La pandemia – osserva l’analista  Nicolas Moura nello studio – ha creato il connubio perfetto tra la necessità dei club di reperire risorse finanziarie in un periodo di forte crisi di liquidità e la crescita del private equity, che a livello globale è passato da 2.100 miliardi di capitale gestito nel 2013 e 4600 miliardi nel 2022”.  

Secondo lo studio, dei 98 club dei cinque maggiori campionati europei (Inghilterra, Italia, Germania, Francia e Spagna) ben 34 sono partecipati da gruppi con sede negli Stati Uniti. E di questi, 21 sono finanziati da fondi di private equity, mentre il resto sono di proprietà di famiglie facoltose, complice l’ascesa della popolarità del calcio negli Usa. La presenza dei “mecenati” del pallone, infatti, è sempre più ridotta, ma non è scomparsa come dimostrano i casi di Thomas Daniel Friedkin, patron dell’As Roma, dell’italo americano Rocco Commisso, proprietario della Fiorentina, e di Luigi De Laurentiis, patron del Calcio Napoli, che si è distinto per una gestione particolarmente virtuosa. Ma è proprio questo il punto, la figura del mecenate non è più ancora ad un ideale romantico che vuol dire mettere mano al portafogli all’infinito. Non a caso, il modello che si sta facendo largo è quello del Multi-club-ownership (Mco), vale a dire operatori che tendono ad avere partecipazioni in più società calcistiche. Una sorta di multiproprietà del pallone. I numeri di Morningstar dicono che nella stagione appena passata il 41,7 per cento dei club dei cinque principali campionati europei fanno parte di una struttura di Mco, percentuale in crescita del 37 per cento rispetto allo scorso anno. Il motivo è che si possono creare diverse sinergie tra i vari club in termini di contratti di sponsorizzazione, trasferimenti/prestiti di giocatori o staff tecnico, scouting, gestione del bilancio e condivisione dei dati. 

E in Italia? “È un modello che potrebbe prendere piede anche da noi proprio perché rende più facile migliorare l’efficienza della gestione”, dice Mussi, che cita i casi del Genoa e del Palermo. Il primo è di proprietà della 777 Partners, fondo di Miami, che di recente ha acquistato anche la squadra di calcio inglese Everton (oltre a possedere altri club in Germania, Francia e Spagna) ma su cui circolano già voci di difficoltà finanziarie. Il secondo fa capo al City Football club, il gruppo dello sceicco Mansour bin Sayed, membro della famiglia regnante di Abu Dhabi, che possiede anche il Manchester City. Insomma, in futuro il derby europeo della proprietà calcistica si giocherà tra capitali americani ed arabi. 

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