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memorie tennistiche

Il Roland Garros raccontato da Ubaldo Scanagatta

Mauro Zanon

Il direttore del portale Ubitennis ci ha raccontato il vissuto personale che lo lega al famoso torneo. Una storia piena di aneddoti, curiosità e opinioni: da Panatta a Borg, fino a Jannik Sinner

 Il prossimo anno fanno cinquanta Roland Garros. “A Wimbledon ho già raggiunto quella cifra, perché ho iniziato nel 74’, l’anno in cui vinsero ‘i fidanzatini’, Jimmy Connors e Chris Evert. Il mio primo Roland fu nel ’76, quando trionfò Adriano Panatta”.

Ubaldo Scanagatta, il giornalista-flâneur del tennis italiano, scrittore e telecronista sportivo negli anni d’oro di Tele+ accanto a Rino Tommasi, Gianni Clerici e Roberto Lombardi, i quattro moschettieri, i nostri Borotra, Cochet, Lacoste e Brugnon della narrazione tennistica. “Nel ’76 venni a Parigi per La Nazione, nonostante non fossi ancora stato assunto, e durante il torneo mi ingaggiò anche Tuttosport, per il quale non avevo mai scritto un articolo. Mi chiesero se potevo seguire la seconda settimana, perché c’era Panatta”, racconta al Foglio Scanagatta, direttore del portale Ubitennis.

Come nel ’73, il tennista italiano batté lo svedese Bjorn Borg (ai quarti di finale), poi in semifinale si sbarazzò dello statunitense Eddie Dibbs, e si ritrovò in finale dell’Open di Francia, due settimane dopo aver trionfato agli Internazionali di Roma contro l’argentino Guillermo Vilas. “Eppure aveva rischiato di uscire al primo turno: annullò un matchpoint con una volée in tuffo a Pavel Hutka, giocatore che insieme a Roberto Lombardi avevamo incontrato in doppio al trofeo Bonfiglio. Hutka giocava in maniera stranissima: il servizio lo giocava con una mano, lo smash con l’altra, il rovescio lo faceva a due mani. Insomma, non si capiva nulla, sembrava mancino e destro allo stesso tempo, e forse Panatta, reduce dalla vittoria di Roma, lo aveva un po’ sottovalutato”, dice al Foglio Scanagatta.

“Poi però vinse, battendo in finale l’americano Harold Solomon. Ci fu la famosa storia delle scarpe, sottrattegli per errore da Paolo Bertolucci che era ripartito per Roma. Nella serata prima della finale, Panatta chiamò il suo amico Manlio, che aveva un negozio di sport, pregandolo di fargli recapitare a Parigi la mattina successiva un paio di Superga perché altrimenti non avrebbe potuto giocare. Arrivarono in tempo con un volo Alitalia e Adriano riuscì a vincere il suo primo slam. Lui ne era convinto già prima di entrare in campo, quando, dopo aver incrociato Salomon negli spogliatori, gli disse una cosa del genere: ‘Ma se ti guardi allo specchio accanto a me, mi dici come puoi pensare di battermi?’ Adriano vinse al tiebreak del quarto set. Fossero andati al quinto, il ‘sorcio’, come lo aveva soprannominato Lea Pericoli per il suo fisico poco grazioso, avrebbe probabilmente vinto. Ad ogni modo, il mio primo Roland fu quello del successo di Panatta. ‘Se comincio così, chissà quanti slam vinceremo come Italia’, dissi a me stesso. E invece, purtroppo, abbiamo dovuto aspettare fino al 2010, quando ha vinto Francesca Schiavone”. A Panatta non riuscì il bis, come a Nicola Pietrangeli (1959-1960), ma fu l’unico a interrompere il dominio di Borg che, su otto partecipazioni, ne vinse sei, perdendo solo due partite, con il tennista italiano.

“Nel ’78, Borg diede un 60 61 60 a Corrado Barazzutti che, a fine partita, al momento della stretta di mano, disse allo svedese: ‘Grazie per avermi regalato quel game!’. Borg quell’anno vinse il torneo senza perdere un set, concedendo la miseria di 32 game nei 21 set delle sue sette vittorie a senso unico. Un game e mezzo di media a set! Nemmeno Nadal nei suoi quattordici trionfi è mai riuscito a vincere così nettamente”, dice al Foglio Scanagatta. Nell’82 vinse un altro svedese, Mats Wilander, che aveva appena 17 anni. “Dopo la vittoria contro Vilas, gli chiesero: “Sei Borg secondo? No, sono Wilander primo’. Aveva una grande personalità”. Il 1983, invece, è l’anno di un ragazzone nato nelle Ardenne da un padre camerunense, Zacharie, calciatore che vinse la Coppa di Francia nel 1961 con la maglia del Sedan: Yannick Noah. “Vinse proprio contro Wilander. È stato l’ultimo francese a trionfare al Roland Garros e l’ultimo a vincere con un gioco serve and volley. Non aveva un gran rovescio, né un gran dritto, ma era molto atletico, saltava altissimo. Quando fece il punto decisivo, il babbo, Zacharie, saltò dalla prima fila della tribuna del Philippe Chatrier per correre ad abbracciarlo. Mi commuovo ancora se penso a quella scena”, racconta al Foglio Scanagatta. Noah fu scoperto da Arthur Ashe, il primo giocatore nero a vincere uno slam.

“Ashe andò in Camerun per sensibilizzare la gente contro l’apartheid, e trovò questo ragazzino che aveva una racchetta con le corde rotte. Giocava a tennis in maniera formidabile e lo fece venire in Francia, a Nizza, per farlo curare dalla Federazione francese di tennis. Cominciò così l’ascesa di Noah”, ricorda Ubaldo Scanagatta. Che è un vulcano di aneddoti. “Dal 1974 al 1979, sono stato direttore del torneo di Firenze, che si gioca sulla terra battuta. Ero riuscito a portare giocatori di primissimo livello, e tra questi c’era anche Arthur Ashe, che aveva vinto Wimbledon nel ’75. Il montepremi totale di Firenze era la metà di quello che Ashe era abituato a guadagnare in una sola serata nei tornei dello slam. Come potevo convincerlo? Mi venne un’idea. Sapevo che la moglie, Jeanne Moutoussamy, era una fotografia professionista, così la chiamai e le dissi: ‘Vieni a Firenze, città dell’arte, e organizzo una mostra con le tue foto. Se poi ti va di venire con Arthur…’. La signora Ashe non resistette al fascino di Firenze, la mostra, curata da Jody Mariotti, venne organizzata all’Hotel Excelsior, e Arthur Ashe venne veramente a giocare. Fu stupendo, anche se Ashe perse col francese Jean Francois Caujolle, che in seguito è diventato direttore del torneo di Marsiglia”.

Ma torniamo a Parigi, 1984. “È l’anno della famosissima finale McEnroe e Lendl. Nell’84, l’americano vinse 82 partite su 85, una la perse con Lendl. Non ricordo se fu in quell’occasione, o se in un altro confronto tra i due, ma Gianni Clerici, dinanzi ai tocchi sopraffini di Superbrat, pronunciò questa frase con la sua inconfondibile vocina: ‘Se io fossi soltanto un po’ più gay, da uno che accarezza la palla così mi farei accarezzare anch’io!’”. L’edizione forse più incredibile, per Ubaldo, è quella dell’89. “Quando la Coupe des mosquetaires venne alzata da Michael Chang, 17 anni, il semisconosciuto ‘cinesino’ con passaporto americano. Batteva da sotto e rispondeva sulla riga del servizio: sconfisse Lendl agli ottavi in una partita leggendaria, e Ekberg in finale”, racconta il giornalista fiorentino.

Poi una scintilla, un nome indimenticabile: Gabriela Sabatini, la campionessa argentina, che Ubaldo “scoprì” quando non aveva ancora compiuto quattordici anni. “Da Buenos Aires arrivò una chiamata: era il mio grande amico e collega argentino Guillermo Salatino. ‘Caro Ubaldo, c’è una ragazzina di tredici anni che ha un talento straordinario. Vorrebbe iscriversi al torneo junior di Santa Croce sull’Arno ma non ha la classifica per entrare e potrà farlo soltanto se le daranno una wild card. Riesci a procurargliela?’. Chiamai allora il direttore del torneo di Santa Croce, Mauro Sabatini, che dinanzi alla mia richiesta rispose: ‘Ubaldo mio caro, ma ti pare possibile che io possa mai negare una wild card a una tennista che si chiama Sabatini come me?’. Gabriela stravinse il torneo, e l’anno dopo trionfò a un torneo junior ancora più importante: il Roland Garros. Da quella volta, siamo diventati grandi amici”. Arriva una notifica WhatsApp nel gruppo Roland Garros 2024: in sala stampa è arrivato Lorenzo Sonego, che ha appena battuto il numero uno francese, Ugo Humbert, sul Suzanne Lenglen.

E Sinner? “È senza un dubbio un fenomeno, anche di determinazione, perché è dura a 13 anni abbandonare tutto, la famiglia, la Val Pusteria e lo sci, per andare a Bordighera. Sta ottenendo dei risultati formidabili, ma a livello Atp avrebbero dovuto concedergli di non giocare tutti i masters 1000, perché se uno esce al primo turno è un conto, ma se uno arriva sempre in finale è tutta un’altra storia. Mi ricorda un po’ il caso di Borg il quale, nauseato dal troppo tennis e dalla federazione internazionale che pretendeva che lui giocasse molto di più di quanto voleva, si ritirò giovanissimo, a soli 26 anni. Spero ovviamente che non vada a finire così”.