L'asso di Carlo
Con Ancelotti perfino il Real Madrid sa diventare operaio
Fra talenti in ombra e lune storte, a decidere l’ennesima Champions in favore dei blancos è l’incornata di Dani Carvajal: inossidabile subalterno, svezzato da Carletto e sempre in campo da un decennio
Ci aveva provato due volte, furtivo su calcio d’angolo. Poi, alla terza, torsione perfetta e palla all’angolino. Da lì in poi il Real Madrid spumeggia, gioca sul velluto, disegna un bis che ha il sorriso di Vinicius e l’aplomb di Ancelotti in panchina. Ma a rompere l’equilibrio nel momento più difficile, contro un Borussia Dortmund a tratti arrembante, ci era voluta tutta l’applicazione di Dani Carvajal: il meno atteso e il più utile, l’arrosto dietro il fumo, l’uomo giusto nel posto giusto. Come tutto, in questa squadra che continua a stravincere e macinare trofei. Fino alla Champions League XV – ai blancos stuzzica il prestigio dei numeri romani –, nel tempio del calcio europeo, sotto la guida dell’allenatore che più di tutti ne ha alzate. Carlo V alla fine c’è stato. Ed è stato per un terzino di sacrificio, più che per un colpo di genio.
L’aveva detto in vista della finale, il nostro Carletto. “Adattarsi è la chiave, altrimenti non sarei sopravvissuto fino al 2024”. E con lui il Real. Che due anni fa vinceva un torneo all’insegna dell’epica, delle rimonte impossibili, dello strabordante talento di Benzema e dei suoi fratellini di giocate (Vini Jr. e Rodrygo). Oggi pure il grande Madrid s’è fatto sporco. E non meno efficace. Ha eliminato il Lipsia soffrendo. Il City annaspando (e subendo ancora di più). Col Bayern la rimonta da sogno c’è stata, ma nel segno di Joselu: più un Pippo Inzaghi che un Benzema, nel repertorio ancelottiano. E nella notte di Wembley, per un bel pezzo non è sembrato il Real lo squadrone più forte. Ha vinto quando ha illuso l’avversario di poter vincere: imbrigliato l’attacco, Courtois costretto agli straordinari, spenta la luce di Bellingham. Aveva pensato a tutto, il Borussia. Tranne a Carvajal, che prima di oggi in Champions aveva segnato soltanto una volta (dieci anni fa) e meno di 20 in 560 partite in totale. Stava solo aspettando.
Roba da libro Cuore, la storia di Dani in maglia blanca. La veste per la prima volta a 8 anni, fa tutta la trafila delle giovanili e poi, dopo un prestito al Bayer Leverkusen, debutta fra i grandi. Chi è a gettarlo nella mischia? Naturalmente Ancelotti, anno 2013. Al termine della stagione quel Real strappa la Decíma – qui la cifra latina la evitiamo con cura, onde evitare vannacciani equivoci – dalle mani dell’Atletico con un gol di speculare esecuzione: corner, incornata del difensore (Sergio Ramos in quel caso), palla all’angolo opposto. Il 32enne Carvajal, sulla fascia destra, è l’unico sopravvissuto di quell’undici titolare. Nel frattempo ha vinto altre 5 Champions. E con la Spagna una Nations League, lo scorso giugno, segnando il rigore decisivo col cucchiaio: prima di allora ne aveva calciato soltanto un altro in carriera. Ma certi giocatori sono nati pronti, appunto. “Dani sembra che abbia giocato 400 partite in qualunque ruolo lo metta”, lo incorona Carletto. E certi allenatori sono nati per gestirli. “Lui sa motivarci, darci equilibrio e farci rendere al massimo in ogni situazione. Senza smettere di avere fame”, ricambia gli onori Carvajal. Ben inteso: entrambe le dichiarazioni sono di gran lunga precedenti alla finale. Tutto era già apparecchiato, fino a quel cross dalla bandierina. Là dove vincere e allenare a vincere sono moti perpetui col ciglio alzato.