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Un anno fa il primo scudetto dopo 33 anni. Ma Napoli non raddoppia

Francesco Palmieri

Dallo scudetto alla débâcle. Squadra e città si corrispondono, ondeggianti fra ottimismo illuminista e nevrosi passionale

“Era di maggio, quello di un anno fa, e se i colori avessero un odore Napoli profumò d’azzurro per la vittoria del terzo scudetto dopo trentatré stagioni. Non serviva la Sibilla Cumana inquietata dal bradisismo per profetizzare che il successo sarebbe stato incerto nel seguente campionato. E chissà se addirittura non sia stato meglio così. È un paradosso che sosteneva Erri De Luca ricordando il Napoli di Maradona: “È il trionfo breve a restare perfetto nella memoria, non le dozzine di scudetti, ma il paio”. Mentre domenica 26 maggio la squadra consumava il conclusivo mediocre zero a zero in casa contro il Lecce, Paolo Sorrentino postava su Instagram da Cannes, dove il suo film Parthenope non ha conquistato il podio del Festival, la foto dal sapore felliniano di un “uomo in smoking il giorno dopo una première” addormentato sulla spiaggia, con una citazione di Robert Louis Stevenson per didascalia: “Il nostro compito nel mondo non è avere successo ma fallire nelle migliori condizioni di spirito possibile”.
 

Calcio e cinema si specchiano l’uno nell’altro nella città dove i trionfi della squadra sono stati intitolati alle pellicole di Massimo Troisi, da Scusate il ritardo a Ricomincio da tre, e dove proprietario del club è la Filmauro, con un presidente che per temperamento non approverebbe la massima di De Luca ma aveva pure avvertito quanto sarebbe stato arduo replicare un campionato eccezionale. Nessuno tuttavia, né Aurelio De Laurentiis né la Sibilla Cumana, né il tifoso Sorrentino né un redivivo Troisi si sarebbe aspettato la débâcle del decimo posto in classifica, che ha estromesso dopo quattordici anni il Napoli da ogni competizione europea. Per citare dal penultimo film del regista vomerese, È stata la mano di Dio, “la realtà è scadente” e chi al mattino esce di casa s’aspetta proprio dal cinema e dal calcio che gliela migliorino, pur senza l’illusione di cambiarla: “Uno strozzino, anche se lo tramortite parlandogli di Jeppson, e vi dà cinquemila lire, dopo un mese ne vuole settemilacinquecento”, scrisse Giuseppe Marotta all’epoca del mirabolante acquisto dell’attaccante svedese con cui il comandante Achille Lauro regalò ai tifosi azzurri il permesso di sognare in grande nel 1952 (e sogno restò).
 

Anche Sorrentino non ha conquistato il podio di Cannes con “Parthenope”. Calcio e cinema si specchiano l’uno nell’altro


Per un’ineluttabile corrispondenza tra il calcio e la città, all’incubo sportivo s’è sovrapposto, nelle ultime settimane, quello unanime del bradisismo che ha smosso con più violenza il suolo seminando paura nei quartieri dell’area flegrea. Il diagramma emotivo non è contemplato dalle planimetrie dei sismologi e degli urbanisti, sicché la sua alterazione ha spinto il sindaco Gaetano Manfredi a esibire l’aplomb dell’ingegnere invitando alla calma: “Sono un illuminista”, dice, “ho fede nella ragione”, anche se una scossa di magnitudo 4.4 Richter avrebbe indotto pure Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri a guadagnare di corsa le scale e a pernottare lontano dai cornicioni (tutt’al più, si sarebbero portati in strada un libro e una candela). Ma il richiamo del sindaco non riguarda solo questioni telluriche: Manfredi è infastidito dai napoletani “chiassosi” che “quasi per dovere” indossano la casacca “di un folclore scontato ma posticcio” come una “camicia di forza”. Già Troisi ironizzava su questi stereotipi una quarantina d’anni fa (senza prevedere l’avvento avverso di Alessandro Siani). Prima di lui lo aveva fatto, a inizio Novecento, il poeta Ferdinando Russo infastidito dallo “scarpettismo” e da Funiculì funiculà. Lo avrebbe fatto pure a modo suo, irritando chi non coglieva la boutade, Aurelio De Laurentiis quando dichiarò di preferire la pizza romana alla napoletana. Accusato di essere estraneo alla città e attento solo ai conti societari, ora qualcuno lo taccia di essere troppo tifoso: “Sin da quando si profilava con largo anticipo la conquista dello scudetto, il presidente ha dismesso il razionale modello manfrediano e s’è concesso ai bagni di folla, s’è lasciato fotografare con gli ultrà, è intervenuto nelle scelte tecniche”, osserva Massimiliano Gallo, direttore della testata Il Napolista. Per chi considera il club in rapporto alla città, anche il suo presidente non raddoppia ma si sdoppia tra la tendenza “illuminista” e la tensione passionale, “tutt’e due molto forti, la prima prevalentemente concettuale, la seconda prevalentemente esistenziale”, come affermava Raffaele La Capria con un teorema che è sembrato finora ineludibile.
 

Sul bradisismo, il sindaco Manfredi esibisce aplomb, infastidito dai chiassosi che indossano la casacca “di un folclore scontato ma posticcio”


“Non è che De Laurentiis abbia voluto fare tutto lui, ma ci è stato costretto dopo l’addio del direttore sportivo Cristiano Giuntoli e dell’allenatore Luciano Spalletti. Erano loro che tenevano assieme la squadra spegnendo le fiammelle nello spogliatoio prima che diventassero incendi”, dice il professor Guido Trombetti, matematico noto ai tifosi come commentatore calcistico. “In nessun laboratorio di ricerca bastano i grandi scienziati. Per ottenere risultati ci vuole l’armonia del gruppo. Perciò Giuntoli e Spalletti hanno dato molto al Napoli, ma molto hanno ricevuto: il primo arrivò da sconosciuto gestore di piccole realtà provinciali, l’altro con la fama di perdente dal caratteraccio, tanto che a nessuno passò per la mente di dargli il benvenuto alla stazione”, ricorda Trombetti. “È inevitabile che adesso alcuni se la prendano col presidente. Sono stato rettore della Federico II per un decennio e venivo additato come responsabile di qualsiasi cosa accadesse nell’ateneo, anche quando non ne sapevo nulla. Chi ha un ruolo di vertice sa che funziona così”.
 

Nel maggio tinto d’azzurro di un anno fa, avendo conosciuto bene la città da giocatore poi da allenatore che le conquistò il primo scudetto, e la Coppa Uefa nel 1989, Ottavio Bianchi espose un assioma: “La cosa più difficile non è tanto arrivare a vincere, ma mantenere lo status da vincente. È faticoso trasportare una sfera sulla cima della piramide, ma la cosa più faticosa è tenerla in equilibrio sulla punta”. Oggi, da Bergamo in festa per l’Europa League dell’Atalanta, valuta senza stupore l’avveramento di quelle parole: “Chi vuol vincere in continuità deve esserci abituato e nel nostro calcio lo sono tre società: per rimanere in vetta bisogna raddoppiare la fatica e il rendimento, perché chiunque incontra il campione si metterà d’impegno a batterlo. L’appagamento è il nemico e c’è chi per evitarlo cambia organico ogni anno”. Bianchi, dopo averci giocato, non voleva sedere sulla panchina del Napoli e solo un lungo corteggiamento del direttore sportivo Italo Allodi lo convinse: “La squadra non aveva fatto risultati con tecnici titolati e non pretendevo di riuscirci io che allenavo il neopromosso Como. Nella stagione ‘84-85, sarebbe bene che i tifosi lo ricordassero, il Napoli malgrado Maradona aveva giocato tre quarti di campionato per non retrocedere”. Bianchi vive lontano da un calcio troppo cambiato, forse davvero dominato dai procuratori contro i quali De Laurentiis ha puntato l’indice anche in un’audizione al Senato di pochi giorni fa: “Sono amico di molti imprenditori in Lombardia e mi confidano gli sforzi necessari per realizzare un milione di utile netto: quanto occorre fatturare, quanti operai ci vogliono e tutto il resto”, prosegue Bianchi, “mentre il calciatore meno pagato di una rosa guadagna la stessa cifra in Serie A. Ciascuno è una ditta individuale che muove molteplici interessi. Quando giocavo io mi presentavo da solo, a vent’anni, per discutere l’ingaggio con la società, altro che avvocati, commercialisti e procuratori. All’epoca i contratti erano annuali e se non disputavi un certo numero di partite ti decurtavano pure lo stipendio”. “Il calcio è lo specchio della vita che viviamo”, perciò sono così remote anche se vicine nella mente le serate partenopee che Bianchi trascorreva col “petisso” Bruno Pesaola al ristorante, in una città più disordinata e ancora meno “illuminista”. Incontrava una volta a settimana l’antico maestro litigando sempre sull’orario di cena: Pesaola proponeva le 23, lui le 20, ciascuno ribadiva che l’altro fosse pazzo e s’accordavano per le 21,30.
 

L’assioma di Ottavio Bianchi, che il Napoli lo conosce bene: “La cosa più difficile non è tanto arrivare a vincere, ma mantenere lo status da vincente”


Anche un altro lombardo che fu portiere degli azzurri, il “giaguaro” Luciano Castellini, rievoca con nostalgia le atmosfere napoletane. “Se vincevamo andavamo tutti assieme a mangiare, ma se avevamo perso restavamo in pigiama fino al martedì per la vergogna di mostrarci in giro”. Di chi è la colpa di una débâcle? Della società, delle diatribe sugli ingaggi, degli allenatori che quest’anno al Napoli sono stati addirittura tre? “Alibi”, risponde Castellini. “È vero che dopo uno scudetto un po’ si molla, ma è ridicolo pensare che dipenda dal modulo di gioco o dall’approccio sbagliato a una gara, perché per una cosa il calcio non è cambiato: in campo scendono undici professionisti che ci saprebbero stare anche da soli. Forse non hanno guadagnato quanto volevano o si sono lasciati andare pensando che tanto era un campionato di passaggio e poi chi s’è visto s’è visto”. Undici monadi contro gli undici compagni di allora: “Credo che questi qui”, aggiunge Castellini, “timbrino il cartellino dell’allenamento e si rivedano il giorno dopo. Noi eravamo amici. Mia moglie, che tornerebbe a Napoli domani, è ancora in una chat WhatsApp con le mogli di Savoldi, Bruscolotti, Krol, Vinazzani… Perdoni la retorica, sarà che sono vecchio, ma ci sono pure altri valori al di là dei soldi e della palla che gira”.
 

Poteva forse essere più cinico De Laurentiis quando Spalletti gli chiese “un anno sabbatico” senza prevedere che di lì a poco sarebbe diventato ct della Nazionale, e reclamare il rispetto del contratto come fece con Rafa Benitez. Poteva imporre al subentrante allenatore Rudi Garcia di mantenere lo staff che aveva svolto un’impeccabile preparazione atletica, mentre quello del francese combinò un pasticcio. Tra i bar e i social si spreca il senno di poi, ma Arrigo Sacchi diceva che il calcio è la più importante delle cose meno importanti. E poi dai picchi dell’esaltazione ai fondali dell’abbattimento non si trascorre solo per il calcio: Massimo Cerulo, ordinario di Sociologia alla Federico II, la definisce “ciclotimia emotiva partenopea che, storicamente, sembrerebbe caratterizzare il popolo che abita in riva al Golfo”. “Immersi tra l’euforia e l’eccitazione causate dall’emozione allegria – per la vittoria dello scudetto, per una notizia ricevuta, per un nuovo amore, per il trovarsi in una situazione sociale di divertimento – i napoletani sono tuttavia sempre pronti a lasciarsi avvolgere dal rischio di capovolgimento emotivo dello stato d’animo a causa di momenti di nervosismo che appaiono dietro l’angolo”, spiega Cerulo. “Si è così allegri e nervosi nello stesso tempo, quasi come se si vivesse in due personalità o, meglio, si recitassero contemporaneamente due o più ruoli sullo stesso palcoscenico”. Un segno “della incapacità di agire con calma” in molte situazioni: dalle notizie calcistiche alle scosse di terremoto: “Più che agire, ci si trova costretti a re-agire”.
 

Massimo Cerulo, ordinario di Sociologia alla Federico II, parla di una caratteristica “ciclotimia emotiva partenopea”


Nella città palcoscenico, intanto, il murale di Maradona continua a essere tra i luoghi più visitati dai turisti, come il Cristo Velato di Cappella Sansevero, San Gregorio Armeno, il Museo Archeologico Nazionale o la Chiesa delle Anime del Purgatorio, che con i teschi un tempo venerati dalla devozione popolare ispirò a novembre scorso una maglietta del Napoli (sciupata dalla prestazione della squadra). Non è la faccia “illuminista” che seduce chi arriva ma la facciata barocca, la porta d’accesso al passato più che al futuro, e a Pompei o Santa Chiara più che alla breve epopea giacobina del ‘99. Il rischio dello stereotipo denunciato da Manfredi è consistente e una recente antologia di autori locali è stata intitolata Napoli stanca. Eppure, guardando dalla prospettiva rovesciata degli scrittori stranieri che ci vivono o ci hanno vissuto in anni recenti, il titolo sarebbe Napoli appassiona. Il francese Philippe Vilain scrive che la città “trascina”, “possiede una sua musica particolare, un suo canto di gioia e di malinconia, un rumore incessante, barocco e gioioso” che “finiamo per non sentire più perché si impone in noi un rumore musicale che, in fondo, non è né suono né silenzio, ma qualcosa tra i due, una sottile forma di non-silenzio”. L’americana Heddi Goodrich, che ha studiato a L’Orientale, ricorda i Quartieri Spagnoli per “il sovraccarico sensoriale” “tale da imporre a tutto il mio sistema nervoso un veloce riacclimatamento”. La chiassosità che infastidisce il sindaco è nel panorama di Spaccanapoli di cui Goodrich non vedeva la fine: “Se c’era, sfuggiva sempre, si confondeva tra le ombre e si nascondeva dietro i panni stesi, i motorini, le moltitudini di persone”. Folclore recitante o piuttosto anima “ciclotimica” che governa gli umori di vittorie e sconfitte stravolgendo le previsioni: pochi avrebbero scommesso sullo scudetto dell’anno scorso e altrettanti sul decimo posto di questo. Ora De Laurentiis garantisce riscossa (lui la chiama “rifondazione”) da imprenditore e da tifoso. Forse, con buona pace di La Capria, ragione illuminista e umore popolare dovrebbero siglare finalmente un accordo.

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