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Una Serie A debrasilizzata

Enrico Veronese

A 44 anni dalla riapertura delle frontiere calcistiche e dopo molti campioni (e qualche bidone) provenienti dal Brasile, il campionato si è scoperto improvvisamente privo del fascino carioca: appena venti i brasiliani tesserati nella trascorsa stagione (pochi quelli nel giro della Nazionale)

Ai Mondiali del 1982, il Brasile più forte di sempre (anche se non vinse) cantava “Voa canarinho”, vola uccellino giallo e verde, prima verso la Coppa e poi magari in Europa. Da due anni il massimo campionato italiano si era aperto ai calciatori stranieri, e il subcontinente lusofono faceva la parte del leone assieme alla vicina Argentina: arrivavano fuoriclasse –prima Paulo Roberto Falçao, poi Socrates, Leo Júnior che pure cantava, il travagliato parto del sommo Arthur Zico e di Toninho Cerezo – ma anche veloci flop, dall’equivoco Luis Silvio Danuello al meteoropatico Eneas de Camargo. Gli italiani prendevano confidenza con il concetto di saudade, i guanti di lana in campo, i gol di Juary celebrati alla bandierina.

Anche la cultura pop del paese, già imbibita della bossa nova di Vinicius de Moraes e Toquinho, attinse a piene mani dal fenomeno – effe minuscola, raccomando – per gli incassi dei film: il pecoreccio “Paulo Roberto Cotequinho, centravanti di sfondamento” con Alvaro Vitali e Carmen Russo (sic), “L’allenatore nel pallone” ora nuovamente in auge per i ricorsi delle mode vintage. A Telemontecarlo funzionavano le simpatiche telecronache di José Altafini, e non c’era programma Rai domenicale che non ospitasse Jair Rodrigues oppure Jorge Ben Jor con la sua ritmatissima elegia di Falçao, idolo del popolo romanista, delle donne e dei rotocalchi.

Ai calciatori brasiliani venivano attribuiti dribbling a passo di samba, frivole prodezze estetiche, esultanze meraviglião: almeno fino al ridimensionamento tecnico-tattico che Sebastião Lazaroni operò attorno al 1989-90. Difesa a cinque con il libero, centrocampo di martelli, attaccanti che dovevano pensare solo al gol in verticale. Che senso avrebbe avuto, allora, importarne da Rio de Janeiro e dintorni se già in Europa questa materia prima abbondava? Altri mercati subentrarono, fino all’avvento di Ronaldo (lui sì Fenomeno con la maiuscola) e alla generazione dei Rivaldo, Ronaldinho, Ricardo Kakà, epoca peraltro segnata dalla rivoluzionaria sentenza Bosman.

Oggi, dopo oltre quarant’anni, la Serie A si è scoperta improvvisamente priva di quella fantasia che solo l’immagine e l’immaginario di un carioca o di un paulista doc può scatenare: appena venti i brasiliani tesserati nella trascorsa stagione professionistica 2023-2024, la media esatta di uno per squadra. L’Inter neocampione vanta Carlos Augusto, non un titolare inamovibile; né un portiere auriverde gioca in Italia, dopo anni di Júlio César, Júlio Sergio, Doni, Dida.

Molti degli altri 19 sono elementi dal valore non eccelso, o quasi mai impiegati: uno dei più forti, Felipe Anderson, tornerà al Palmeiras scornando la Juventus di Danilo e Gleison Bremer, i soli nel giro della Nazionale tra coloro che ancora stanno in Italia. I convocati di Dorival Júnior abitano la Premier League (dal Milan è transitato Lucas Paqueta) o la Liga spagnola: ma tanti nella Seleção stazionano ancora in Sudamerica, rari trapuntano la rosa del Paris Saint Germain o incontrano una lingua familiare tra Lisbona e Porto.

Impietoso il confronto coi campioni del mondo argentini, il cui filo doppio con l’Italia mai si è interrotto: i migliori – Lautaro Martínez, Paulo Dybala, Nico González – stanno ancora qui, si è affacciato Matías Soulé proprio quando saluta (con gol) il logoro Alex Sandro, rispunta Dodô a Firenze, Juan Jesus sta in altre cronache e Natan neanche quello. Arthur Melo si ricicla rigorista, Éderson punta in alto, Walace fa il semaforo e Matheus Henrique si è acceso a intermittenza, la Ciociaria ha provato ad allevare Reinier e Kaio Jorge senza troppo successo, al Genoa ha scoperto nuovi ruoli Júnior Messias. Ieri difendevano Aldair e Thiago Silva, oggi Ruan Tressoldi: com’è triste il calcio in Italia, senza più brasiliani “veri”.

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