L'editoriale dell'elefantino
La meraviglia tennistica di Sinner, nuovo n.1 al mondo, raccontata con i suoi sguardi
Il controllo naturale del tennista altoatesino è un fenomeno quasi divino, e avrebbe lasciato Longanesi senza parole
Anche per chi non abbia mai visto una partita di tennis dal vivo, anche per chi quel gioco divino lo abbia scoperto tardi e trattato come un’ipnosi letteraria, anche per chi si sia limitato da anni a una impressionante quantità di ore televisive o al computer, assorbendo tonnellate di noccioline come i couch potatoes dei fumetti, anche per chi non sappia che cosa voglia dire un corpo segaligno, un set di buone maniere impressionante, il rifiuto del sarcasmo e della beffa come programma di vita, anche per chi da una vita tifi per il moralismo dei delinquenti contro la squadra dei benpensanti, anche per chi non sia mai stato a San Candido e tantomeno a Cortina, anche per chi soffra con distacco rispettoso per l’abdicazione di un eroe omerico, di un Aiace Telamonio del tennis come Novak Djokovic, anche per me dunque il sorriso vittorioso e timido di Jannik Sinner, buono decente monotono bravissimo e infinito paraculo, è irresistibile e mi parla come l’occhiolino di un bambino rosso di pelo disteso sul suo passeggino in un pomeriggio di tarda primavera.
Il 4 giugno 2024 si associa con garbo tedesco o austriacante, nazionalità italiana per una volta senza il carattere italiano, al 4 novembre: la vendetta di Caporetto fu un famoso dispaccio “firmato Diaz”, e ora gli si appaia la vendetta astratta, ai punti Atp, di un primato dolce e garbato “firmato Sinner”. L’impeccabilità intesa come assenza di peccato è una scemenza anticattolica, ma la compostezza elegante, naturale, apparentemente noncurante, e il segreto è nel controllo rigoroso e naturale dell’apparenza, è un fenomeno quasi divino.
La stella di Sinner brilla dalle cavigliere in su, splende nel taglio degli occhi, nella espressione disponibile e serena del volto, nel modesto linguaggio del corpo anche quando la palla gialla viene colpita con passione e cattiveria astuta, nell’incredibile irruzione di una buona educazione familiare e ambientale sulla scena patologica del presente sociale, in quell’inconsapevolezza vaga che Sinner condivide con il suo rivale e collega in gioventù, Carlos Alcaraz, e che è la chiave e la manifestazione sublime di un vero successo. Con tanto miele che gli è destinato, con il conforto di un popolo risvegliatosi carota boy, in un paese che il fair play non sa nemmeno dove stia di casa, mi rallegra pensare che Sinner vive a Montecarlo, dove è residente e fiscalmente responsabile delle sue tasse, e penso che abbia affrontato con il suo stile di blando e riservato negazionismo morale le polemiche insulse di cui fu fatto oggetto ai primi prize money ingenti raccolti sul campo con il rovescio a sventaglio e il dritto in diagonale, ineccepibile oltre che “peccatore” impeccabile. Ha una famiglia, uno dei suoi segreti, che è l’opposto di quella di un altro grande, il greco-russo che assomiglia a Gesù Cristo, Stefanos Tsitsipas: Apostolos e Julia ci sono sempre, quando gioca, e parlano senza interruzione e fanno le smorfie e fremono e litigano e cambiano posto facendo ciascuno il suo coaching spesso in conflitto. Il figlio soffre e si offre per la remissione dei loro peccati. Jannik ha un altro destino: i suoi genitori sono gente di montagna, vivono distanti da una carriera folgorante, non si impicciano, sono evanescenti come fino a ieri le sue fidanzate, mentre il suo team ha espressioni solide e altrettanto composte di quelle del pupillo. Di Sinner nemmeno Leo Longanesi avrebbe mai potuto dire che sulla sua bandiera tricolore è scritto “ho famiglia”.
Che cosa ci sia sotto, che cosa viva in quest’uomo prigioniero della sua bolla di concentrazione e missione, non si sa e non si saprà mai. Si sa che non sfascia le racchette, che non ha nel sangue il drammone russo di Andrey Rublev e la perfidia oltranzista di un Daniil Medvedev, che il suo tratto malinconico evidente è sempre ben dissimulato nel professionismo ultraweberiano, nel Beruf come lavoro e vocazione, che non è eroico e tignoso e indio di temperamento come Rafa Nadal; e per chi sospetti che questo tipo straordinario di ragazzo abbia anche dei sentimenti troppo umani e ordinari c’è sempre quello sguardo attonito ma non irridente né odioso, solo stupefatto, quando il simpatico Nicola Pietrangeli, altra gloria del tennis italiano, parlò male di lui che aveva appena rivinto la Coppa Davis. Ci sarà modo di riparlar male di lui alla prima occasione, questo è certo. Non oggi.