Jannik Sinner (foto Ap, via LaPresse)

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Fenomenologia di Jannik Sinner

Giorgia Mecca

Lo stile, le parole, i colpi forti, quelli deboli, il margine di crescita e il caso incredibile di un tennista fenomenale ma non ai massimi livelli e   che ha appena iniziato una storia. Un ritratto entrando nella testa del numero uno al mondo 

Sono le 16.53 di un martedì di inizio giugno quando Jannik Sinner diventa numero uno del mondo. In quel momento lui è in campo contro Grigor Dimitrov, sta cercando la sua prima semifinale al Roland Garros. Qualcuno dagli spalti, tra un punto e l’altro gli grida: “Sei proprio tu, ce l’hai fatta”. Lui non sente o non ascolta, gioca, gioca e basta, e alla fine vince. Anche questa circostanza, pur involontariamente, è in perfetto stile Sinner, uno che mentre il mondo cade ai suoi piedi pensa a fare il suo gioco e rimane in campo. In fondo, dove altro dovrebbe essere?

Per lui l’orgoglio non è mai fine a se stesso, nemmeno gli occhi lucidi con cui ha accolto la notizia nel momento in cui Fabrice Santoro a fine match lo ha informato che Novak Djokovic era stato costretto a ritirarsi dal torneo, che non avrebbe potuto difendere il titolo (e anzi, si sarebbe dovuto sottoporre a un intervento al menisco) e che dunque ci sarebbe stato il sorpasso.

Oltre e prima di un orgoglio che è sempre un orgoglio di squadra, condiviso con i suoi due coach e tutto il team, c’è la consapevolezza di un ragazzo non abituato a stringersi la mano da solo, uno che non conosce l’autocompiacimento. “Numero uno? Fantastico, prima però devo pensare a Carlos Alcaraz, il mio prossimo avversario”.

La partita, che si è giocata due giorni dopo, è stata vinta al quinto set dallo spagnolo, che aveva più necessità di quella vittoria rispetto al suo rivale.

Lo scrittore e musicista norvegese Levi Henriksen nel suo libro Norwegian Blues ha scritto: “A volte il successo più grande sta nel fallire piuttosto che ripetere sempre lo stesso successo”.

Nel 2024 Jannik Sinner ha un bilancio di 33 vittorie e 3 sconfitte, 2 contro Carlos Alcaraz (a Indian Wells e a Parigi) e una contro Stefanos Tsitsipas (durante la famosa semifinale di Monte-Carlo, decisa soprattutto dall’infortunio all’anca e da un grosso errore arbitrale). Nei primi quattro mesi dell’anno l’azzurro ha alzato tre trofei, a Melbourne, Rotterdam e Miami; da aprile in poi, la terra rossa avrebbe dovuto rappresentare una stagione di mezzo tra cemento ed erba, più congeniali al suo gioco. Invece, nonostante infortuni, stop e una superficie lenta, nonostante fosse ritornato in campo con la mentalità di una partita per volta, si è ritrovato in semifinale in uno Slam. La sconfitta contro Alcaraz facilita la presa di consapevolezza da parte del pubblico che gli avversari esistono, gli avversari possono batterti. Nel momento in cui vieni battuto, è più facile per gli altri comprendere quanto è stato difficile, faticoso, stressante, vincere tutte le altre volte, trentatrè su trentasei.

“Mi sembra di vivere con un bersaglio sulla schiena”. Questa era la sensazione con cui conviveva Pete Sampras, quando era il migliore del mondo. Perdere, da grande favorito, contro il suo connazionale Jim Courier, ai quarti di finale nel major di casa sua, gli Us Open , avrebbe potuto rappresentare una tragedia, lui la visse con sollievo, come se si fosse liberato di un peso, le aspettative di infallibilità che gli altri riponevano su di lui. Quando sei il numero uno, i passi falsi non sono consentiti, vengono vissuti con delusione, fanno nascere dubbi, domande irragionevoli: “Come fa ad essere numero uno al mondo se ha perso questa partita?”, senza nessuna attenzione per il contesto e per il contorno, per le partite e le vittorie precedenti. Flavia Pennetta un giorno ha detto che ai tennisti succede cinque volte all’anno di giocare al loro personale 100 per cento. Cinque giorni su 365. Il resto è provare a cavarsela con la miglior versione disponbile di te stesso. 
 
Jannik Sinner è andato via da Parigi con un’occasione in più per migliorare ancora, e un avversario ritornato ad essere tale. Forse per festeggiare il suo nuovo best ranking si sarà concesso un piatto di patatine fritte e una porzione di tiramisù. Dopodichè, lavoro, lavoro, lavoro. Come ha scritto Francesco Longo, l’obiettivo è quello di non commettere il medesimo errore due volte di seguito, senza per questo non considerare l’avversario, la possibilità che possa essere migliore di te in quella precisa giornata.

C’è un’immagine che circola in Rete in questi giorni di celebrazioni: un ragazzino di undici anni che sta passando lo straccio per togliere i segni dal campo. Ha i capelli rossi lunghissimi, le gambe magre, il fisico sottile e i vestiti oversize. È lo stesso ragazzino che qualche mese dopo si allontanerà di casa da solo, passando dall’estremo nord est all’estremo nord ovest dell’Italia, un tragitto che per un bambino ha la stessa distanza del giro del mondo, dai monti al mare, un viaggio della speranza intrapreso perché qualcuno gli ha detto che valeva la pena provare, e lui aveva deciso di dargli retta, di consegnarsi. Giorno dopo giorno. 
Spesso nelle storie di grande sacrificio spesso si possono notare atteggiamenti o parole che hanno a che fare con la rivalsa, il rancore, il successo come vendetta, la rabbia come strumento per affermarsi. Jannik Sinner ha fatto enormi sacrifici, ma in lui non c’è traccia di livore o risentimento. Nella conferenza post Alcaraz ha detto di essere un ragazzo felice oltre che fortunato: “Se non sono felice io…”. L’azzurro non ci sta facendo pesare il viaggio, la gavetta, la solitudine e le rinunce, le feste a cui non ha potuto partecipare, la nostalgia, i dubbi che ti possono venire quando ti sei messo letteralmente in gioco e non ci sono certezze sul risultato che otterrai. Non ci sta facendo pesare la timidezza che deve affrontare a ogni intervista, la riservatezza a cui ha dovuto rinunciare, il dover essere, ogni giorno, conseguente alle aspettative che gli altri hanno riposto su di te, pur senza titolo né diritto per aspettarsi niente. Il ventiduenne risponde con il sorriso che, se non è felice lui, chi dovrebbe esserlo. Eppure, ogni suo gesto è il gesto di chi conosce bene cosa c’è dietro quella felicità che ha deciso di condividere con tutti quanti.

“I sogni ci sono e sono grandi” diceva ai microfoni delle televisioni locali il bambino che stava passando uno straccio certamente più pesante di lui. I sogni in effetti erano immensi. Ma in quelle parole si può notare il tono di voce di una persona dotata della forza tranquilla di chi crede che con il suo talento, la sua testa, se avesse lavorato per anni e anni, di più e meglio degli altri, i risultati sarebbero arrivati. E i risultati a cui si riferiva già allora non erano il torneo di Miami, gli Australian Open, Toronto o Pechino, i risultati erano la cima del mondo, uno Slam sì, ma moltiplicato fino a quanto è possibile moltiplicarlo.

Jannik Sinner parla sempre al futuro, mai al passato. Mentre l’Italia doveva ancora riprendersi dalla sbornia di Melbourne, comprensibile vista la mancanza di abitudine l’azzurro già pensava al dopo, alla posizione del ranking in cui si siede a partire da oggi. E adesso che è arrivata anche quella? Cosa c’è di più grande? Rimanerci. Il più a lungo possibile. In un’intervista a Paolo Rossi uscita anni fa su Repubblica, Matteo Berrettini sosteneva che il mondo del tennis fosse vittima di un grande equivoco che stava danneggiando i giocatori. Federer, Nadal e Djokovic con il loro ventennio di dominio assoluto avevano stravolto regole ed equilibri. I fantastici tre rappresentavano un’eccezione, non la regola. Nel mondo reale è impensabile vincere così tanto, così a lungo, lasciando le briciole a tutti gli altri. Berrettini ha certamente ragione, ma Jannik Sinner sembra possedere la mentalità dei cannibali e non dei contemporanei. Rispetto a Carlos Alcaraz che vince il torneo di Wimbledon e si smarrisce per un lungo periodo, l’italiano appare meno incline a perdere la rotta, la motivazione o la voglia, lui vince per vincere ancora. 
Da oggi, 10 giugno 2024, soltanto per la posizione in cui si merita di stare, non certo per l’indole, guarda il mondo dall’alto verso il basso, perché sopra di lui non c’è più nessuno. È inutile scomodare venerati maestri degli anni Settanta o cercare paragoni made in Italy, perché in questo sport non ne esistono più. Come lui nessuno mai. Al suo best ranking, Sinner è arrivato step by step, al termine di una scalata lunghissima, sicuramente più difficile e dolorosa di quanto lui non stia facendo credere.

Da enfant prodige, mentre tutti i pianeti si stavano allineando, si è visto sorpassare da Carlos Alcaraz e dalla sua esplosività piena di promesse, l’azzurro è stato a lungo il perdente in questo paragone e se è vero che Sinner preferisce non parlare mai del suo passato, è altrettanto vero che i quarti di finale agli Us Open del 2022 se li ricorda ancora benissimo. E siccome lo spagnolo, che sarebbe arrivato prima alla vittoria di uno Slam e alla prima posizione del ranking, non bastava, ecco una nuova minaccia: Holger Rune e la sua strafottenza capaci di mandarlo in tilt. Nei confronti diretti, con entrambi, almeno fino allo scorso novembre, il bilancio era negativo. Jannik Sinner ha dovuto perdere, e spesso, contro di loro, e poi contro Zverev, Medvedev, Djokovic, prima di imparare a vincere. Ha avuto bisogno di sprecare match point per imparare a salvarne tre di seguito, e infine vincere, una delle partite più importanti fino a questo momento della sua carriera, la semifinale di coppa Davis contro Novak Djokovic nell’incontro tra Italia e Serbia.

“Sembra sempre tutto scontato, ma non lo è”. È una frase che si sente spesso pronunciare da Jannik Sinner, ed è un’altra lezione che ha insegnato agli amanti di questo sport, antichi e recenti. Prima di diventare la testa di serie numero uno, il più quotato, il favorito, l’azzurro è stato a lungo l’outisider, forte con i deboli, eccetera eccetera, poco performante quando si tratta di soffrire sul serio, negli Slam. Lui spiegava che doveva ancora finire di crescere e in sala stampa gli facevano notare il suo bilancio poco brillante al quinto set. Ha sofferto di crampi, ha avuto paura e contemporaneamente, il solito Alcaraz aveva cominciato a divorare anche l’erba sacra a Djokovic, sotto gli occhi dello stesso Nole.

Jannik Sinner ha vissuto tutto questo, le sconfitte, le cadute, l’impotenza nel vedere chi gli stava di fronte imperversare mentre lui restava immobile e rivolgendosi al suo angolo chiedeva semplicemente: “perché?”, una domanda che ne conteneva insieme almeno altre cento, tra cui: “Perché loro riescono e io no?”, “Cosa sto sbagliando?”, “Cosa devo ancora fare per non dovere più ritrovarmi a New York a stringere la mano a un avversario felice di avermi battuto contro il pronostico?”. Le risposte sono cominciate ad arrivare tutte insieme proprio a partire dagli Us Open, dopo una delle sue peggiori sconfitte contro Alexander Zverev, una partita nella quale ha avuto i crampi, come lui stesso ha ammesso, non per stanchezza ma per terrore.

Da oggi, dopo 428 settimane, Novak Djokovic, convalescente dopo l’intervento al menisco che lo costringerà a settimane di stop e forse a dover rinunciare al torneo di Wimbledon, dovrà accomodarsi sul secondo gradino del ranking, e a fare spazio ad un ragazzo con le fossette e le lentiggini che arriva da San Candido, è Jannik Sinner il nuovo re del mondo, un sovrano illuminato, che ha la consapevolezza di che cosa c’è dietro e cosa c’è stato prima, con due genitori che lo tengono ancorato alla realtà facendogli capire, con il loro lavoro, che giocare a tennis è un bellissimo privilegio ma non è la cosa più importante, con la calma tranquilla di chi, gli avversari che ha avuto e che avrà, li ha sconfitti dentro il campo, imparando dagli errori e dalle frustrazioni.

Non è difficile immaginare che cosa farà Jannik Sinner una volta che si sarà svegliato da numero uno del mondo. Andrà in palestra e poi ad allenarsi in campo. Ha raggiunto un traguardo storico e alla sua portata. Chi ne è testimone dovrebbe solo dirgli grazie per i ricordi che sta costruendo. A futura memoria.

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