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Il Foglio sportivo

Joe Gaetjens, l'uomo che non vide il suo gol

Fabio Tavelli

Quella fu una rete storica per gli Stati Uniti al Mondiale del 1950, peccato che l'americano finì a faccia in giù nell’erba. La singolare parabola umana del calciatore tra calcio, reclame e Haiti

Joe non vide mai il gol che aveva appena segnato. Non poteva per due motivi. Al 37esimo del primo tempo il suo compagno Walter Bahr dalla destra aveva provato un velleitario tiro in diagonale. Il portiere inglese Bert Williams sembrava tranquillamente in controllo della palla. Ma dal nulla Joe Gaetjens si era lanciato in un tuffo di testa e, sfiorando appena la palla, la indirizzò in rete alla sinistra dell’incredulo Williams, il cui slancio lo aveva portato nella direzione opposta. Gaetjens finì con la faccia piantata in giù nell’erba e non vide il cuoio muovere la rete. Era una sua specialità, quella del gol di testa in tuffo.

O quantomeno del suo tentativo. Al punto che sua sorella Mirelle gli aveva costruito un’imbottitura da mettere sotto la maglietta per proteggerlo nella zona pettorale. Il secondo motivo che impedì a Joe di vedere il suo gol, almeno in foto, era che tutti i fotografi erano piazzati dietro la porta degli Stati Uniti. Certi che il loro lavoro avrebbero dovuto svolgerlo solo dietro il fin lì sconosciuto Frank Borghi. Altro eroe di Belo Horizonte, Franck. Lui come anche Charlie Colombo, ruvido difensore che riuscì a fermare Mortensen, con le buone ma non solo, e che secondo le scarne cronache del tempo: “Se tra gli avversari ci fosse stata sua madre, lui l’avrebbe stesa senza pietà”. Il 29 giugno del 1950 va in scena una delle più clamorose rivoluzioni nel mondo del calcio. I Maestri inglesi si erano finalmente concessi al resto del mondo per permettere anche agli inferiori di essere battuti da coloro che questo sport lo avevano inventato. Prima di allora si esibivano al massimo un torneo con le squadre delle altre Federazioni britanniche. Ma fuori dal Regno Unito, nemmeno per sogno. Il mondo stava iniziando a fare nuovamente pace con sé stesso e dopo le Olimpiadi di Londra del 1948 anche il calcio voleva dare il suo contributo alla rinascita con i primi Mondiali del secondo dopoguerra. Il Brasile, che era già di un livello altissimo, non era ancora riuscito a vincere un Mondiale e fece l’impossibile (anche attraverso un governo militare) per aggiudicarsi l’organizzazione. Il Mondiale del ’50 passerà alla storia per il Maracanazo e il miracolo dell’Uruguay di Obdulio Varela. Ma prima di arrivare a quell’epilogo ci fu: “Il miracolo di Belo Horizonte”. Gli inglesi erano forti, ma forse non fortissimi. Avevano battuto a fatica il Cile 2-0 nella prima partita del girone e il secondo impegno era con questi malcapitati “che vengono dalle colonie”. Gli americani erano una squadra messa insieme in qualche modo. Senza un campionato vero di riferimento e con giocatori che in molti casi si erano conosciuti il giorno stesso della partenza per il Brasile gli yankees pescavano a piene mani nel serbatoio degli immigrati. Di Gaetjens si sapeva poco. Qualcuno scrisse che era belga. Ma Joe non lo era. Il suo nome suonava fiammingo. I fiamminghi sono la metà di lingua olandese del Belgio. Considerando la marea di immigrati fiamminghi che invase il Nord America nel 19esimo secolo, l’assunzione che Gaetjens fosse di discendenza belga aveva senso. Ma ricerche genealogiche mostrano che il bisnonno di Joe, Thomas, emigrò ad Haiti da Brema, nel nord della Germania, dove il nome Gaetjens è piuttosto comune. Thomas arrivò ad Haiti poco dopo il 1825 (quando la Francia riconobbe ufficialmente l’indipendenza di Haiti) e sposò Leonie Dejoie, il cui padre era un generale e aveva contribuito all’autodeterminazione di Haiti. Quella connessione aprì una via alla prosperità per la famiglia Gaetjens. Poi le cose andarono economicamente peggio e quando Joe fu scelto per la squadra nazionale degli Stati Uniti nel 1950 lavorava come lavapiatti al Rudy’s Cafe, che serviva cibo spagnolo all’angolo tra la 111esima strada e Lenox Avenue ad Harlem.

Gaetjens, tuttavia, non era venuto a New York per guadagnarsi da vivere ai margini del mercato del lavoro, ma per studiare contabilità alla Columbia University. Gli Stati Uniti erano una delle sole quattro squadre della Confederazione Calcistica Nordamericana dell’epoca. Due di esse sarebbero andate al torneo in Brasile. Nel torneo di qualificazione del 1949 a Città del Messico, gli Stati Uniti persero 6-0 e 6-2 contro il Messico, ma batterono Cuba 5-2 e poi pareggiarono 1-1 ottenendo il pass (il Canada non partecipò).

Gli Stati Uniti avevano preso parte alle Olimpiadi del 1948 a Londra, che si conclusero con una disastrosa sconfitta per 9-0 contro l’Italia al primo turno. La stessa squadra continuò a perdere partite amichevoli contro Norvegia e Irlanda del Nord con punteggi di 11-0 e 5-0. Per evitare altre umiliazioni in Brasile, la Federazione statunitense si mise alla ricerca di nuovi e migliori giocatori. Il Belfast Telegraph aveva definito gli Stati Uniti una “banda di senza speranza”, e l’allenatore Bill Jeffrey, in quello che era o un eccellente posizionamento da sfavoriti o una genuina preoccupazione, aveva dichiarato la sua squadra “pecore pronte per essere macellate”. Forse i bookmakers lo dicevano meglio. Avevano dato alla squadra inglese favorita una probabilità di 3-1 di sollevare la Coppa del Mondo. Gli Stati Uniti erano quotati a 500-1. La partita di Belo Horizonte fu un tiro al bersaglio. Stanley Matthews, la stella degli inglesi, fu tenuto a riposo per evitargli fatiche inutili. Gli stessi inglesi quando videro le condizioni degli spogliatoi nello stadio se ne risalirono sul pullman e si fecero riportare in albergo. Si cambiarono lì e arrivarono di nuovo allo stadio già in pantaloncini e maglietta. C’erano inizialmente meno di 10mila spettatori. Che quasi raddoppiarono alla fine quando circolò la voce in città che stava accadendo qualcosa di sconvolgente. Frank Borghi parò qualunque cosa arrivasse a tiro dei suoi guantoni. Pali e traverse gli furono alleati. Quando l’arbitro italiano Generoso Dattilo fischiò la fine ci fu un’invasione di campo pacifica. Ma gli americani non erano sicurissimi si trattasse di festa e scapparono a gambe levate negli spogliatoi. Gaetjens fu invece bloccato e portato in trionfo non senza un po’ di sua incredulità. In un pomeriggio era tramontato il mito dei Maestri e ne stava nascendo un altro. Quello che in alcuni sport, il calcio tra questi, anche i più scarsi ogni tanto ribaltano i pronostici. Di giornalisti a vedere la partita non c’era nemmeno l’ombra. Il servizio dell’agenzia Reuters pubblicò correttamente il risultato di 1-0, ma la maggior parte dei giornali, immaginando che l’operatore del telex avesse fatto un errore, lo cambiò in 10-0 o 10-1. Per gli inglesi. L’Inghilterra perse poi 1-0 anche contro la Spagna e non avanzò al turno successivo. Gli Stati Uniti persero la loro ultima partita contro il Cile, 5-2, e finirono ultimi nel Gruppo 2. Dopo la sua breve carriera professionistica in Francia, Gaetjens tornò a Haiti per diventare testimonial di aziende come Palmolive e Colgate. 

Quattordici anni dopo Belo Horizonte durante un pomeriggio a Port-au-Prince Joe si trovò di fronte ad altri uomini che lo inseguivano. Come i tifosi brasiliani che lo avevano celebrato. Ma questi volevano solo prenderlo, e non per portarlo sulle loro spalle. Erano i tremendi Tonton Macoute, la sanguinaria miliziani del dittatore Francois “Papa Doc” Duvalier, tiranno di Haiti. Lo fecero salire su un’auto e andarono via sgommando. Nessuno lo vide mai più. Come il suo, indimenticabile gol.

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