La fiducia nei giovani che dovrebbe avere il calcio italiano. Parla il ct Massimiliano Favo
"Mi sono fatto l’idea che perdoniamo poco gli errori dei nostri ragazzi". Intervista al commissario tecnico che ha portato l’Italia U17 a vincere l’Europeo contro il Portogallo
I ricordi hanno sempre una forma e una collocazione. Gli ultimi, Massimiliano Favo li ha già piazzati in bacheca. "È in camera di mio figlio, lui è uscito di casa e adesso la uso io come studio. C’è una bella foto di me con Maradona, una gigantografia, e a fianco ho messo questa bacheca. Dentro c’è un po’ tutto: la foto dei ragazzi che esultano, qualche titolo di giornale, e una mia foto con la coppa in mano. Ovviamente la medaglia. E il gagliardetto che mi sono fatto firmare dai ragazzi: c’è la data della finale, lo stadio. C’è la scritta 'Campioni per sempre'".. L’uomo che ha portato l’Italia U17 a vincere l’Europeo contro il Portogallo adesso è in vacanza. E anche se "sto già pensando alla rosa dell’anno prossimo e a come portare avanti questo titolo", l’eco dolce delle notti magiche di Cipro torna a farsi sentire. Mentre l’Italia di Luciano Spalletti cerca gloria a Euro2024, le Italie dei baby, dei giovani vincenti e terribili, custodiscono il seme della speranza. Domani è un altro azzurro.
È l’Italia fresca e minorenne, quella che sbircia con curiosità il futuro. Intanto, però, vince. "Abbiamo fatto una bella cosa - racconta Favo -, anche con una squadra sotto età, eravamo la più giovane del torneo assieme alla Croazia". Se la Spagna lancia Yamal, 16 anni, in una competizione di adulti, vuol dire che lo spazio per i giovani si può sempre trovare. È grazie a imprese come quella dell’U17 e ai coraggiosi come Favo se ci si può pensare. "Avevamo in gruppo dei 2008. Molti mi dicevano di non esagerare con quelli più piccoli. Alcuni di loro li avevo avuti nell’Under 15. Camarda, Natali, Longoni, Campaniello. Tutti hanno dato una grossa mano. Tutto bellissimo".
Sono figli delle stelle, ragazzotti con l’aria sognante. Guidati da Favo, 57 anni, da una vita nel calcio. Un calcio diverso dal suo. "Il calcio nostro, mio, era quello di strada". Sul Mattino arrivò il messaggino del Napoli calcio, c’era la leva, avrebbero visionato l’annata ’66. "Giocavo all’oratorio, non avevo mai messo una maglia di calcio, non sapevo cosa volesse dire giocare su un campo vero. Si giocava per strada, con due pietre messe a fare i pali. Papà mi disse: 'Vuoi provare, sì? E che ruolo mettiamo?'. Papà da piccolo era stato un centrocampista. 'Va beh, mettiamo quello', disse. Ma non avevo idea di cosa volesse dire". Impossibile ipotizzare una cosa del genere nel mondo di oggi iper settorializzato, schematico, incapsulato. "Andammo al provino, c’erano 3.000 bambini. Giocai in mezzo al campo, ma giocavo senza un’idea, come sapevo. E dopo tre-quattro provini, selezioni su selezioni, il Napoli mi prese. Lì è iniziata la trafila. Non era come adesso. Ogni anno dovevi aspettare con ansia se ti arrivava la convocazione per l’anno successivo, era una specie di promossi e bocciati".
Oggi ci sono le scuole calcio, le regole degli under, i criteri di selezione sono meno stringenti. Eppure l’Italia pallonara trova sempre il modo di ritardare l’ingresso dei giovani nelle prime squadre: devono fare gavetta. "Dobbiamo osare, i giovani meritano spazio - dice Favo -, mi sono fatto l’idea che perdoniamo poco gli errori dei nostri ragazzi, a volte l’esterofilia che abbiamo ci porta a perdonare di più lo straniero". Liberali, per esempio. Tra i migliori dell’Europeo a Cipro. "Se fosse Liberao verrebbe aspettato più di Liberali. Dal nostro prodotto ci si aspetta qualcosa in più. In Inghilterra è il contrario. Devi far vedere di essere più forte di loro. Dico una cosa: i ragazzi hanno il dovere e il diritto di crescere". In un anno solare, da luglio dell’anno scorso a giugno di quest’anno, l’Italia baby, quella del Club Italia del responsabile Maurizio Viscidi, ha vinto due campionati d’Europa ed è arrivata a un passo dal titolo mondiale nell’U20. Dall’Under 21 in poi c’è un imbuto, il meccanismo si inceppa. Ma, aggiunge Favo, "noi allenatori siamo bravi perché abbiamo materiale. Questi sono ragazzi con grandissimi valori, e senza di loro non avrei raggiunto l’obiettivo".
Uomo di mondo, Favo, che il mondo ha imparato a conoscerlo girovagando, prima da calciatore e poi da tecnico. "Negli spogliatoi prendi tante mentalità, quelle di altre regioni d’Italia, che ti arrichiscono. Quando viaggi ti arrichisci, conosci posti, hai a che fare con valori multietnici. Uno spogliatoio di qualsiasi sport è multietnico. In Italia spesso c’è una sorta di provincialismo. Invece è bello identificarsi con un’unica nazione".
Allenatore, formatore, genitore: coi ragazzi non c’è mica un ruolo solo. E in una società straripante di stimoli (dai social ai media tradizionali), una guida serve sempre. Favo non dice no ai paragoni. Da ragazzo dicevano di lui: è il nuovo Antognoni. "Quando Allodi me lo disse mi squagliai. A me piaceva anche Falcao. I paragoni servono perché questi idoli ti danno stimoli. Molte volte ai ragazzi dico di guardare i movimenti di un attaccante, di andarsi a vedere le partite di Pirlo". E così nelle sessioni video Favo mostra gesti e movimenti: Baggio, Totti, Del Piero, i grandi vecchi del fútbol.. "Faccio vedere anche quelli del passato, sì. Ci si ispira anche a loro. Magari gli facciamo vedere la capacità di smarcarsi o un movimento. Mostrare aiuta a spiegare quello che a volte non riusciamo a dire".
Maradona, anche. Con cui Favo ha giocato. "Qualcuno di lui mi chiede, ma ne parlo di rado perché è una cosa intima. Non parlo mai di Maradona giocatore, ma dell’uomo. L’uomo è stato macchiato. Invece era divino, lottava per i più bisognosi, quando penso a lui penso a Robin Hood. Diego veniva a vedere se la percentuale del premio era giusta, magari prendevo 600mila lire. Era un masaniello, un giusto. E per essere giusto ha preso tante inculate". I ricordi si allungano, si mischiano. Favo campione d’Europa, Favo allenatore, Favo che giocò una vita. "Una delle cose che più mi emoziona è quando un grande giocatore lascia. Ne ho sofferto anche io, so cosa significa. Mi ha toccato quando ha lasciato Totti, adesso toccherà a Kroos. Io ho smesso a 37 anni e mezzo, ero a Viterbo in C. Finale playoff per andare in B: perdemmo. Piangevano tutti, e piangevo anch’io. Guido Carboni, l’allenatore, che era poco più grande di me, mi disse. 'Ma sì, ne hai vissute tante'. Gli dissi: 'Piango perché smetto'. Questa cosa mi è rimasta dentro".
I ricordi si affastellano, adesso per Favo ci sono quelli di Cipro e dell’Europeo conquistato. "Da lì mi sono portato via la maglia di un mio giocatore che arriverà a certi livelli, ma chi è non ve lo dico. Ho giocato un anno in Sardegna e sei in Sicilia. Aver vinto l’Europeo su un’isola per me è incredibile. Le isole sono magiche, e Cipro ha qualcosa di magico. Tornerò lì con mia moglie, andremo nello stesso albergo, rivedrò le stesse cose". Rinnoverà i ricordi.
Il Foglio sportivo