Luciano Spalletti (foto LaPresse)

Euro scettico

Evviva Eriksen, sopravvissuto persino all'Italia oscurantista

Maurizio Crippa

Nella noia patita finora, la giacca di Luciano Spalletti quantomeno illumina d’immenso. Ma gli sciattoni non capiscono

L’unica fortuna del primo turno con l’Albania, partita scialba che solo un colpo di genio di Dimash ha tenuta accesa per un quarto d’ora, è che ogni tanto inquadravano la panchina con la magnifica divisa di Spalletti & staff. Una elegantissima giacca di jersey blu oltremare, un taglio morbido che su fisici scolpiti non guasta affatto, realizzata da Emporio Armani ispirandosi alla divisa indossata dalla Nazionale nel 1928. Si sono scatenati i capisceur di fussball convinti di intendersi pure di moda e una marea di idioti da tastiera (“il web non perdona”, sic!), compresi certuni nomi noti che il tacere è bello.

Tutti egualmente incapaci di leggere il taglio di una due bottoni e di coordinare a uno stadio variopinto e sgargiante un tono di colore pacato e raffinato (figurarsi se capiscono il gioco tra antico e contemporaneo della scritta a caratteri bastoni disegnata sulle spalle). Re Giorgio Armani sta per compiere 90 anni, ha appena vinto pure il terzo campionato di basket di fila, se ne infischierà sovranamente delle critiche di sciattoni e sciattone. Se non capite Armani beccatevi Domenico Tedesco del Belgio in camicia bianca da fine serata dopo un matrimonio e scarp de’ tennis che pareva un barbùn. Oppure la polo con la lampo di Gareth Southgate. (Benino Nagelsman in casual black descamisado, inguardabile Silvinho con look nostalgia dell’Albania di Enver Hoxha). Ma nessuno si avvicina all’eleganza Armani che riesce a donare un senso estetico persino all’Uomo di Certaldo. Solo gli italiani che hanno perso la cultura del bello, come direbbe Sangiuliano, non riescono a capirlo.

Grande festa per Christian Eriksen e un gran bel momento di sport. Mille e cento giorni dopo l’arresto cardiaco che lo colpì durante la partita degli Europei 2020 a Wembley contro la Finlandia, con quelle drammatiche e commoventi immagini dei suoi compagni di squadra a fare sipario attorno a lui e a spegnere gli occhi elettronici e famelici mentre i medici cercano di salvarlo, Eriksen è tornato agli Europei con la sua Danimarca, e ha segnato anche un gol. Dopo lunghi mesi a rimettersi in piedi, e dopo essere tornato a tirare i primi calci con le riserve dell’Ajax, era andato a parametro zero al Brentford, in Inghilterra, per poi passare al Manchester United. L’Inter, con cui al tempo dell’infortunio militava, dovette rassegnarsi a rescindere il contratto, perché l’Italia è l’assurdo paese siffatto per cui un atleta – adulto vaccinato e professionista – non può praticare sport se gli è stato applicato un defibrillatore cardiaco sottocutaneo. In Inghilterra invece è possibile, e il pallido principe di Danimarca è tornato a “insegnare calcio”, come direbbe Adani, e si è ripreso l’Europeo.

L’Italia invece è il paese in cui nel 2021 c’era un ministro per il quale anche il Covid era stato “un’opportunità unica per radicare una nuova idea della sinistra”, figurarsi che cultura della libertà di cura (e di lavoro) si possa immaginare di avere. L’istituto di Medicina dello sport del Coni stabilì che Christian Eriksen non poteva riprendere la  pratica agonistica. Non per un’evidenza scientifica, ora è evidente, ma perché l’Italia è un antiquato regno borbonico anche quando si tratta di sport. Viva la Premier League.

Domenica fuori dal Wolksparkstadion, lo stadio di Amburgo, un uomo non s’è capito bene perché o con chi ce l’avesse ha minacciato con un ascia (le molotov ce le aveva nello zainetto) agenti di polizia e tifosi (olandesi) che stavano entrando per la partita Polonia-Olanda. I bravi poliziotti tedeschi prima gli hanno sparato (a una gamba) e l’hanno steso a terra, e poi con calma gli hanno chiesto i documenti e l’hanno portato in ospedale. Così si fa nei paesi seri come la Germania. In Italia, sicuramente, lo avrebbero candidato per Strasburgo.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"