poesia

L'essenza del calcio nei versi e negli articoli di Giovanni Raboni

Maurizio Crippa

Una passione “gratuita” ma non senza senso. Spiegata dalle poesie dell'autore milanese che oggi chiameremmo un addict delle partite. Un libro

Il commento perfetto, tra “maledizione” e “braccia al cielo”, alla partita Italia-Croazia di lunedì sera agli Europei lo ha scritto Giovanni Raboni, in una poesia del 1982 (anno magico per il calcio italiano). Si intitola “Zona Cesarini”, è ora ripubblicata in un libro che parla della passione del poeta per il calcio. Eccola. 

 
ZONA CESARINI


Il tiro, maledizione, ribattuto
sulla linea nell’ultima convulsa
mischia a portiere
nettamente fuori casa, fuori causa, col dito
mignolo, con la spalla, con l’occipite, con
la radice del naso
dell’avversario accorso, guarda caso,
da metà campo – o forse (chi capiva
più niente con quel buio) dal compagno
che va in cerca di gloria
a scapito evidente degli schemi
non più tardi di ieri ribaditi
nella fantastica pace del ritiro
dal mister quando ancora
tutto, anche vincere, anche
azzeccare questo tiro teso, radente, tra decine
di gambe e lentamente
spalancando la bocca
correre verso il centro, rotolarsi
nell’erba, in lenta muta sfida stendere
le braccia al cielo era possibile…

   

Non è una poesia, e nemmeno uno scritto in prosa o un articolo di giornale, il breve brano che sintetizza la sua “poetica” del calcio, o meglio del tifo, cioè di una passione connessa con la vita stessa. Sono poche righe di Giovanni Raboni riportate da Sergio Zavoli in un libro dedicato al calcio: “Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita, di sé stessi, di quello che si è stati, di quello che si spera di continuare a essere. È un segno, un segno che ognuno riceve una volta per sempre, una sorta di investitura che ti accompagna per tutta la vita, un simbolo forte che si radica dentro di te, insieme alla tua innocenza, tra fantasia, sogno e gioco”.

     
In questa dichiarazione esistenziale di poetica del calcio c’è la sintesi delle cinque poesie e dei dodici scritti giornalistici che Giovanni Raboni, poeta milanese e gran lombardo (nato nel 1932 dalle parti della Stazione Centrale dove ancora c’era un “terreno vago” e i ragazzi “giocavano al pallone, alla guerra, agli indiani” e morto a Fontanellato nel 2004) ha lasciato. Come il calco di una parte per nulla secondaria della sua anima, della sua sensibilità e della sua capacità di creare “metafore calcistiche” che non appartengono soltanto a quella, quasi inspiegabile, passione. Basterebbero a dimostrarlo gli ultimi versi struggenti della poesia dedicata “a mio fratello, l’ultimo inverno” e che si intitola “Vivi, io e te, per quanto?”: “E adesso non so più niente, / meno della durata di un’azione, / meno del tempo che ci vuole / a un mediano di spinta / per raggiungere l’area di rigore”. 

 
Come nasce quella infatuazione poetica che si chiama passione per il calcio? O viceversa, quella poeticità epica propria del gioco che fa sì che la miglior descrizione del gol di Zaccagni al 98esimo della sfida con la Croazia non sia l’urlo di Fabio Caressa (“stavo rimettendoci le tonsille”) ma sia in quei versi finali di “Zona Cesarini”: “Correre verso il centro, rotolarsi / nell’erba, in lenta muta sfida stendere / le braccia al cielo era possibile…”? Per rispondere bisogna fare un po’ di storia, raccontata nella bella introduzione al libro che raccoglie gli “scritti sul calcio” di Giovanni Raboni e che si intitola appunto “Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita” (Mimes, 140 pp., 14 euro). E bisogna partire da un altro poeta, Vittorio Sereni, che a partire dalla metà degli anni Sessanta condividerà con il più giovane, Raboni, la consuetudine di una passione, “il tifo domenicale per l’Inter dalle tribune di San Siro”. Del perché senza motivo, o così profondo da essere insondabile della passione per una certa squadra – nel caso di Sereni, e di Raboni, “il fantasma nerazzurro”, ma che vale allo stesso modo per tutte le squadre – scriveva Sereni: “La radice del tifo è reperibile qui: nel punto in cui avverti il nesso tra il tuo carattere e la sembianza, la cifra che la squadra assume ai tuoi occhi per analogia ma anche per contrasto all’immagine che hai di te stesso… Diventa una metafora della tua esistenza, la sorte della squadra”. 

   
Ma la passione per il calcio, in sé? Per quel gioco passionale e casuale, magnetico? “Perché mi piace il calcio? Ogni tanto me lo chiedo. Quella per lo sport è una passione veramente gratuita, non ha senso”, scriveva Raboni. E l’arcano mistero risiede forse nel fatto che “il calcio sia, delle forme dell’agon”, cioè della lotta e della competizione, quello “col più alto tasso di alea”, di casualità. Lo spiega nella raffinata introduzione il curatore del volume, Rodolfo Zucco, italianista dell’Università di Udine, specialista di linguaggio poetico ma che non rinuncia, a sua volta, a dichiararsi tifoso interista e a inserire, tra le chiose a metafore e simboli, una attualizzazione sullo “sciagurato tentativo di rinvio di Benjamin Pavard costato alla squadra il gol del pareggio di Griezmann nella partita contro l’Atletico Madrid”.
È per questo, tra lotta e caso, che si diventa e si resta per sempre tifosi di una certa squadra: “Perché si è tifosi della propria vita”. E per il poeta, oggi lo chiameremmo un addict delle partite, non importa nemmeno chi stia giocando: “Come tifoso dello sport  che si chiama calcio mi appassiono a tutte le partite possibili e immaginabili: dagli incontri del campionato svizzero, quando a Milano si vedeva ancora la televisione svizzera, alle partite cinque contro cinque o sei contro sei giocate dai ragazzi sui campetti di periferia”.

 

E a loro, ai ragazzi della Primavera, è dedicata un’altra bella poesia, “Canzoncina della mezzala sinistra”: “I due terzini sono un po’ bassini / ce ne vorrebbe un terzo / la media dei mediani / è di centimetri / centoquaranta”. Una passione che è vita, non a caso un articolo scritto all’epoca di Mexico ’86 già lamenta la “tristezza delle partite di calcio alla televisione. Niente prima, niente dopo, nessuna storia, nessuna realtà in cui inserirle”.

 

Invece l’essenza di tutto è un’altra poesia: “Allo stadio andavo presto / non volevamo perdere / la partita prima della partita”. Erano i tempi di San Siro con Sereni. E allora la “pura meraviglia” era vedere, prima del match, giocare i ragazzi: “Forse perché correvano sul prato / con furibonda leggerezza / come se fosse, quello che facevano, / davvero un gioco – o forse / perché l’altra cosa, la vera / doveva ancora cominciare / era ancora tutta davanti a noi / con le sue ombre sanguinose / con il suo cupo carico di gloria”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"