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facce da euro 2024

Tutte le contaddizioni di Artem Dovbyk

Andrea Romano

Dalle accuse di filo putinismo per aver parlato in russo ai dubbi sulle sue qualità per i pochi gol fatti sino al titolo di capocannoniere nella Liga con la maglia del Girona

A volte per stravolgere completamente il senso di una storia basta cambiare il nome di uno dei protagonisti. È stato così per Artem Dovbyk, il centravanti ucraino che in estate era diventato un chiodo fisso di Guardiola. Non di Pep, l’uomo che ha rivoluzionato il gioco del calcio forgiando quell’idea che poi molti hanno riassunto e scopiazzato, ma di suo fratello Pere, ex centrocampista di terza divisione, ex procuratore, ex uomo marketing della Nike e ora presidente del cda del Girona.

In verità quella fissazione era sembrata a molti un azzardo. Perché i sette milioni e mezzo spesi per il suo cartellino, record assoluto nella storia del piccolo club catalano, sembravano una cifra esageratamente alta per un ragazzone che a 26 anni aveva segnato solo con la maglia del Dnipro. O quasi.

La parabola di Dovbyk, infatti, era stata piuttosto contraddittoria. Proprio come la sua città di nascita, Cerkasy, distrutta dai tedeschi e poi diventata negli anni Sessanta il più importante centro chimico dell’Ucraina sovietica. Artem aveva iniziato nella squadra locale. Poi era passato al Dnipro, che a sua volta lo aveva girato ai moldavi dello Zaria Bălți. Una storia da mal di testa che non aveva dato i frutti sperati. A 19 anni Dovbyk era tornato a Dnipro. E stavolta però aveva iniziato a segnare. Sei gol il primo anno. Dodici il secondo. Abbastanza per provare una nuova avventura all’estero, con i danesi del Midtjylland. Non è molto, ma è pur sempre qualcosa, un sogno in miniatura a cui aggrapparsi. Il primo anno segna solo un gol. Poi si rompe il crociato. Quando torna a disposizione non c’è più spazio per lui. Viene ceduto al Sønderjysk Elitesport. Significa giocare nell’estrema periferia della periferia del calcio. E quel bottino striminzito di due reti non può certo avvicinarlo al centro.

Il suo terzo ritorno al Dnipro assume così contorni salvifici. Dovbyk si scuote, esce dal letargo in cui era stato risucchiato. Ma lo fa un po’ alla volta: 6 reti il primo anno, 14 il secondo, 24 il terzo. Già dalla seconda stagione finisce sui taccuini del City Group. Dicono che vorrebbero portarlo al Troyes. Solo che alla fine non se ne fa niente. Poi l’estate scorsa si fanno sotto Torino, Lazio, Bologna, Marsiglia, Fenerbahce, Besiktas e Galatasaray. Artem può scegliere qualsiasi squadra. E spiazza tutti firmando per il Girona, uno dei satelliti del City Group.

Un club senza blasone, senza storia, senza coppe. Un giornalista ucraino gli domanda: "Ma perché il Girona? Perché non un’italiana?". Artem risponde che non voleva aspettare, che gli altri club volevano prima vendere i loro attaccanti per poi acquistarlo. In verità c’è un altro fattore alla base della scelta. Dovbyk non parla una parola né di spagnolo né di inglese. Così decide di affidarsi all’altro ucraino del Girona, Viktor Tsygankov. È una scelta che dà i suoi frutti. Artem segna spesso. Molto. Di testa, di mancino, una volta addirittura di destro, il piede che usa per camminare. Il suo metro e novanta lo rende il terminale perfetto per la squadra di Míchel. E insieme scrivono la storia. Il club arriva terzo. All’ultima giornata Dovbyk si gioca il titolo di capocannoniere. All’ultimo minuto il Girona è avanti 6-0 contro il derelitto Granada. Artem ha già segnato 2 reti ma gliene serve un’altra per vincere il titolo di capocannoniere. Succede tutto in un secondo. L’ucraino segna un rigore e diventa Pichichi. È la prima volta in 14 anni che il titolo non va a un giocatore del Real o del Barcellona.

Dopo essere rimasto a bocca asciutta con Romania e Slovacchia ora contro il Belgio può scrivere una nuova storia per la sua Nazione. Proprio lui che allo scoppio della guerra era stato accusato di essere filo-putiniano per una risposta data in russo. Colpa della sua infanzia a Cerkasy, la città delle contraddizioni. 

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