La presentazione delle squadre a piazzale Michelangelo a Firenze. Sabato il via del Tour de France (foto Getty Images)

Il foglio sportivo

Un'Italia giallo Tour de France

Giovanni Battistuzzi

Da Firenze a Claviere, tutti i colori della tre giorni (e mezzo) italiana della corsa francese 

Il giallo in Italia è cosa da romanzi, da copertine di libri diventate antonomasia di un genere letterario, quello che unisce in un sol gruppo il crime e il poliziesco. La “colpa” fu di Lorenzo Montano, che per Arnoldo Mondadori creò una collana di libri polizieschi e decise di colorare di quel colore le copertine. 

Il giallo in Italia è cosa da uomini di ciclismo, come il giallo Del Tongo che ha unito Giuseppe Saronni, Franco Chioccioli e Mario Cipollini. Come, soprattutto, il giallo Mercatone Uno, o meglio il giallo Pantani, arrivato nel 1997 a colorare i ricordi di quel corridore che sino ad allora aveva incantato a tratti, ma che aveva trovato per strada più sfiga che vittorie

Poi c’era il giallo Tour. Ma quello era un racconto di terre lontane, un sogno estivo fatto di foto in bianco e nero sui giornali, di parole lette e sentite alla radio e poi di immagini televisive. Al massimo era un lusso concesso a valdostani e piemontesi, al limite a liguri, che videro il Tour de France invadere l’Italia per la prima volta in un pomeriggio di luglio del 1948, conquistare Sanremo e poi salutare tutto frettolosamente il giorno dopo. Quel giorno vinse il furlano Gino Sciardis e Gino Bartali era ancora un vecchietto che faceva i conti con gli anni che passano e con undici minuti di distacco dalla maglia gialla Louison Bobet. Nessuno poteva immaginarsi allora che solo pochi giorni dopo Gino Bartali potesse rivoluzionare quella corsa, vestirsi di giallo e, dicono, acquietare un po’ gli animi iracondi di rabbia e paura per l’attentato a Togliatti

Il colore più amato in Italia, quello almeno che occupa i pensieri degli appassionati è il rosa. Lo è dal 1909, da quando la Gazzetta dello sport ha deciso che il nostro paese non poteva non avere una grande corsa a tappe, quella che i francesi si erano inventati sei anni prima. Lo è ancor di più da quando il 10 maggio 1931 Learco Guerra vestì la prima maglia rosa. 

Strade e città, paesini e colline, tra Firenze e Rimini, Cesenatico e Bologna, Piacenza e Torino e poi su verso le Alpi del Sestriere, però hanno iniziato a colorarsi di giallo nei giorni scorsi. Un giallo che sarà sempre più acceso e intenso a partire da questa mattina e nei prossimi giorni nei luoghi attraversati dalla carovana.  

Il Tour de France non era mai partito dall’Italia. Ci era sempre e solo passato, aveva concesso ogni tanto la sua magnifica presenza nell’arco alpino piemontese e valdostano. E per due giorni al massimo a sfogliare il calendario, meno di ventiquattro ore a seguire lo scorrere di secondi, minuti e ore. Giusto un assaggio per vedere l’effetto che fa. 

Ce lo gusteremo molto di più da sabato a lunedì. Tre tappe e mezzo che saranno buone per capire perché il Tour è da centoundici edizioni la corsa più importante e seguita al mondo. E perché c’è nulla che gli si avvicina, checché ne dicano gli appassionati animati da nazionalismo sportivo intenti ancora a credere che il Tour de France non sia altro che un Giro d’Italia che si è venduto meglio per qualche trama occulta francese. Basta vedere passare la carovana pubblicitaria che anticipa i corridori, tutti i suoi carri che inondano il pubblico di gadget e ricordi, per capire quanto è enorme il Tour. 

Il Tour de France 2024 parte da Firenze. Disegna due tappe meravigliose per itinerario e altimetria tra appennini, colli e pianura padana (la Firenze – Rimini, 206 chilometri e sette Gran premi della montagna, e la Cesenatico – Bologna 200 chilometri e due passaggi in cima al San Luca). Offre il meglio delle Langhe e del Monferrato prima di raggiungere Torino (e attenzione che non è sarà una tappa banale come suggerisce l’altimetria). Poi saluterà l’Italia a Claviere, dopo aver scalato il Sestriere, per tornarsene in Francia. 

Tre giorni e mezzo che saranno visti in centonovanta paesi da un numero imprecisato di persone, ma che secondo le stime gira tra i novecento milioni e il miliardo e mezzo. Solo Mondiali di calcio e Olimpiadi fanno numeri maggiori, ma si giocano ogni quattro ani.  

Tre giorni e mezzo che riusciranno a riempire i bordi delle strade in un serpentone quasi senza stacchi di persone festanti, arrivate lì perché c’è il Tour de France. Perché lì, in mezzo al gruppo, tutti (o quasi) i più forti ciclisti al mondo, quelli che si è imparato a conoscere anche se non si è appassionati. Perché ora Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar, Mathieu van der Poel e Wout van Aert, Egan Bernal e Julian Alaphilippe sono riusciti, a forza di scatti e fughe, a far parlare di ciclismo e di ciclismo e basta. Sono riusciti a far uscire di nuovo il ciclismo al di fuori della nicchia sportiva nel quale si era cacciato dopo anni di storie di doping e scandali cavalcati da tanti in nome di una presunta purezza e verginità, non provata però da nessun passaporto biologico (al contrario del ciclismo) e ripetutamente ributtati en passant nel flusso delle “notizie” sportive. 

Bordi strada che spesso sono con più vuoti che pieni, con più assenze che presenze quando non c’è il Giro o non c’è il Tour, soprattutto quando in gruppo non ci sono loro. 

Lo si è visto anche all’ultimo campionato italiano lungo le strade attorno del Mugello e di Sesto Fiorentino. 

E sì che le strada Toscana le biciclette sono presenze costanti da quando la bicicletta non era ancora bicicletta ma velocipide. La prima corsa in velocipide fu la Firenze-Pistoia, era il 2 febbraio 1870. E ancora è così, per numero di ciclisti della domenica, per numero di cicloturisti in costante crescita da anni, attratti soprattutto da quel mescolarsi di sterrati, cibo e vino che L’Eroica è riuscito anni fa a mettere assieme. 

Le biciclette ci sono, crescono. Gli appassionati pure. Almeno sulla carta, nei numeri. Eppure molte corse di non grande charme accolgono sui marciapiede o le banchine ben poche persone, sempre meno anno dopo anno. Le ragioni sono tante, c’entrano senz’altro le dirette su tutte le piattaforme e il fatto che il ciclismo sia sport da orario lavorativo. C’entra però anche che il ciclismo abbia iniziato pure lui a “soffrire”, come molti sport, di eventite, di quella tendenza nella gente di uscire di casa solo per i grandi eventi e considerare poco o nulla o quantomeno non abbastanza interessante tutto il resto. 

Il Tour de France è il grande evento tra i grandi eventi. È capace di attrarre interesse e passione come nessuna altra gara ciclistica (e non solo ciclistica). Forse perché tutto quel giallo colpisce l’occhio, mette di buon umore come nessun punto di rosso o di rosa sa fare. Forse perché è il primo, l’origine di tutte quelle storie di uomini in bicicletta che ancora, in un modo o nell’altro, ci affascinano. Perché nessuno sport come il ciclismo raggruppa in sé tutto ciò che per millenni ha affascinato l’uomo: è ancora un racconto di fughe, di cadute, di redenzioni, di sangue, di gioia, di sfide più o meno estreme contro la natura e contro gli uomini. E contro se stessi.  

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