lettere dalla Grande Boucle
Il Tour de France secondo Roland Barthes
Per lo scrittore francese "il Tour è contemporaneamente un mito di espressione e un mito di proiezione, realistico e utopistico a un tempo"
Il Tour de France è un mito. Roland Barthes lo scrive nel 1957, in “Mythologies”, tradotto in “Miti d’oggi” (Lerici, 1962, poi Einaudi). Anzi: “Il miglior esempio che abbiamo mai incontrato di un mito totale, cioè ambiguo; il Tour è contemporaneamente un mito di espressione e un mito di proiezione, realistico e utopistico a un tempo”. Cioè: “Il Tour esprime e libera i francesi attraverso un favola unica in cui le imposture tradizionali (psicologia delle essenze, morale della lotta, magismo degli elementi e delle forze, gerarchia dei superuomini e dei gregari) si mischiano a forme di interesse positivo, all’immagine utopistica di un mondo che cerca ostinatamente di riconciliarsi mediante lo spettacolo di una chiarezza totale dei rapporti tra l’uomo, gli uomini, e la Natura”. Insomma: “Nel Tour è viziata la base, i moventi economici, il profitto ultimo della prova, generatore di alibi ideologici. Ciò non toglie che il Tour sia un fatto nazionale affascinante, nella misura in cui l’epopea esprime quel momento fragile della Storia in cui l’uomo, anche maldestro, gabbato, attraverso favole impure intuisce ugualmente a suo modo un perfetto adeguamento tra sé, la comunità e l’universo”.
Barthes nasce a Cherbourg, Normandia, durante la Prima guerra mondiale. Orfano di guerra, a un anno. Cresce con la madre prima a Bayonne, poi a Parigi. Si laurea alla Sorbona, insegna a Biarritz, Bucarest, Alessandria d’Egitto, Parigi. Non più solo letteratura e teatro, ma anche grammatica e filologia, sociologia e lessicologia, scienze economiche, semiologia e retorica, anche calligrafia e acquerelli. L’umanesimo. Di tutti i saggi di Barthes, il più diffuso, “Frammenti di un discorso amoroso” (Einaudi, 1979), da A come Abbraccio a V come Voler-prendere attraverso la M di Mutismo e la R di Rapimento, premesso che “il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine”.
Per affrontare “il Tour de France come epopea”, Barthes comincia dall’onomastica: “I nomi dei corridori sembrano nella maggior parte venire da un’età etnica molto antica, da un tempo in cui la razza risuonava attraverso pochi fonemi esemplari (Brankart il Franco, Bobet il Franciano, Robic il Celta, Ruiz l’Ibero, Darrigade il Guascone)”. Tanto più che “questi nomi ritornano continuamente: nel grande caos della prova sono punti fissi che hanno il compito di riagganciare una durata episodica, tumultuosa”, e se “agli esordi della loro gloria i corridori sono provvisti di qualche epiteto di natura”, “più tardi diventa inutile”, così “si dice: l’elegante Coletto o Van Dongen il Batavo”, ma “per Louison Bobet non si dice più niente” e “Raphael Geminiani, eroe completo perché insieme buono e valoroso, è chiamato a volte Raph, a volte Gem. Questi nomi sono leggeri, un po’ teneri e un po’ servili; testimoniano in una stessa sillaba di un valore sovrumano e di un’intimità tutta umana a cui il giornalista si avvicina familiarmente”, “nel diminutivo di un corridore ciclista c’è quel misto di servilità, di ammirazione e di prerogativa che fa il popolo voyeur delle sue divinità” e “diminuito, il Nome diventa veramente pubblico; permette di collocare l’intimità del corridore sul proscenio degli eroi”.
Barthes sostiene che “il vero luogo epico non è il combattimento, ma la tenda, la soglia pubblica in cui il guerriero elabora le sue intenzioni, da cui lancia ingiurie, sfide, confidenze”, “screzi omerici”, “vestigi di infeudamento”. Nota che “ci si abbraccia molto, al Tour”, “l’abbraccio è qui l’espressione di una magnifica euforia rivissuta davanti alla chiusura e alla perfezione del mondo eroico”. E precisa: “La perfezione di rapporti pubblici è possibile solo tra grandi: appena i gregari entrano in scena, l’epopea si degrada a romanzo”.
A ingigantire l’epopea e trasformarla in mitologia, c’è la geografia del Tour: “Gli elementi naturali e i fondi stradali sono personificati, giacché l’uomo si misura con essi, e come in ogni epopea occorre che la lotta metta di fronte misure uguali: l’uomo è così naturalizzata, la Natura umanizzata”. E “la tappa che subisce la personificazione più forte è quella del Mont Ventoux. I grandi passi, alpini o pirenaici, per duri che siano, restano malgrado tutto dei passaggi, sono sentiti come oggetti da attraversare; il passo è cavo, arriva difficilmente alla persona; il Ventoux ha invece la pienezza di un monte, è un dio del Male a cui bisogna sacrificare. Vero Moloch, despota dei corridori, non perdona ai deboli, esige un ingiusto tributo di sofferenze”.
Barthes è ispirato, rapito: “Il Tour dispone di una vera e propria geografia omerica. Come nell’Odissea, la corsa è qui a un tempo periplo di prove ed esplorazione totale dei limiti terrestri. Ulisse aveva raggiunto più volte le porte della Terra. Il Tour, anch’esso, sfiora in più punti il mondo inumano” e “mediante la sua geografia il Tour è quindi censimento enciclopedico degli spazi umani”.