I cent'anni del Tour de France di Ottavio Bottecchia nelle foto di Lelo Tajariol

Giovanni Raffaello Tajariol era amico e gregario del corridore veneto che vinse due Grande Boucle nel 1924 e nel 1925

Marco Pastonesi

Giovanni Raffaello Tajariol. Lello, per gli amici. Lelo, anche, in dialetto pordenonese. Ciclista indipendente. Così si diceva allora, primo Novecento, per indicare quei corridori che non avevano squadra, dunque casa costruttrice di biciclette, e infatti detti non accasati. Così si diceva allora, tempi di ciclismo pionieristico dunque eroico, per sottintendere quei corridori abituati a cavarsela da soli, viaggiare mangiare bere dormire e infine correre, loro e la loro bicicletta, eventualmente da regolare sistemare aggiustare pulire lubrificare. A riconoscerne i meriti e premiarne le qualità, oltre a quella generale, esisteva una classifica speciale. E chi s’imponeva, poteva sempre, se non ambire, almeno sperare in un contratto, e in un ingaggio, per l’anno successivo.

Tajariol, friulano di Pordenone, del 1900. Sei anni meno di Ottavio Bottecchia. Però stessa zona, stesse strade, stessa passione. Forse la stessa vocazione, certo non la stessa dote. Che a quei tempi da forzati della strada, era la resistenza fisica, la sopravvivenza umana. In questo, Bottecchia si dimostrò, per tre anni, insuperabile. Se Bottecchia veniva da una famiglia che conosceva il vuoto della miseria (lui, ottavo di nove figli, il padre un carrettiere), Tajariol aveva origini più generose. Pietro, il papà di Lello, cominciò a lavorare giovanissimo nel Cotonificio Veneziano Amman come operaio, poi come impiegato nella Banca di Pordenone, quindi in proprio, prendendo le stoffe dalle fabbriche e rivendendole, commerciante in stoffe e vestiti a Pordenone e non solo. Quattro figli, due maschi e due femmine: Giovanni Raffaello, il primo, poi Sara, diminutivo di Sahara, Ate e Arrigo. Altri due, Teresa Maria e Lando Ercole, morti appena nati. Lello, molto probabilmente, imitò il padre come figura antesignana del moderno rappresentante di stoffe e vestiti, un mestiere tramandato come l’oro di famiglia, divenne viaggiatore. Ma c’era altro. Lello fu sedotto dalla bicicletta, postino in bici durante la Prima guerra mondiale, anche per sfuggire alla severità del padre e alla matrigna, di cui lui, le sorelle e il fratello accettarono a fatica l’affetto, poi si convertì al ciclismo (a Pordenone già ai ‘rimi del Novecento esisteva l’Audax, gruppo di velocipedi), s’innamorò dell’avventura, a forza di pedali. Forse Ottavio e Lello si conobbero proprio così, complice una lettera o un dispaccio.

Al ciclismo Ottavio e Lello giunsero già uomini. Ottavio fu una stella, più caduta che tramontata: il quinto posto (ma il primo fra gli indipendenti) al Giro d’Italia 1923, il secondo posto al Tour de France 1923, il primo in quelli del 1924 e del 1925, la morte misteriosa nel 1927. Lello fu una comparsa: due Giri d’Italia, da indipendente, nel 1925 e nel 1926, e varie gare regionali e locali come ciclista professionista. Per incoraggiarlo, se mai ne avesse avuto bisogno, quando andava a gareggiare, suo padre, che riteneva solo l’alpinismo e la montagna degne di nota in quanto magister vitae, gli bucava le ruote (così raccontava suo fratello Arrigo). Da uno di questi Giri d’Italia tornò un mese dopo la fine della corsa. In mano reggeva solo il manubrio, particolare, e la sella, inglese, una Brooks. Arrivava da Napoli, ed era rimasto là, innamorato dell’avventura, ma stavolta anche di una donna, e il resto della bicicletta venduto per tirare avanti e pagarsi il viaggio di ritorno a Pordenone in treno.

Non raccontava molto, il vecchio Lello. Lo conferma Pietro, che tutti chiamano Piero, il figlio di Lello.

Quella volta che, in allenamento sul Cansiglio, Lello ruppe la bici e allora Ottavio se lo caricò sulla canna e lo portò in cima. Quella volta che, in discesa dal Clauzetto, incrociarono un vitellino, Bottecchia non riuscì a frenare e lo divise a metà. Quella volta che in una corsa durante una sagra paesana, Lello cadde, si rialzò, ripartì, ma dalla parte sbagliata, tagliò il traguardo alzando le braccia al cielo, e quando, accolto non dagli applausi ma dai fischi, capì l’errore, disse: “Mi hanno voltato il giro”. E tutte quelle volte che Ottavio, prima di diventare Bottecchia, andava a mangiare a casa di Lello. E quella bici di Ottavio, regalata a Lello, prestata per valorizzare una vetrina di Pordenone al Giro d’Italia del 1970, e poi scomparsa, volatilizzata, in fuga, per sempre.

Di Lello, grazie al figlio Piero, rimangono anche queste fotografie. Straordinarie. Piene di tutto.

Di più su questi argomenti: